Riservato e di poche parole. E con un accento che non mente. Filippo La Mantia è palermitano, romano d’adozione ma oggi vive a Milano dove ha aperto nel 2015 il suo omonimo ristorante, uno spazio di quasi tre mila metri quadrati, ex sede dello sfarzoso Gold di Dolce e Gabbana, in piazza Risorgimento. Dopo un passato da fotoreporter e oltre dieci anni trascorsi nella capitale (“mi sono trasferito a Roma nel 2001, ho comprato una giacca bianca e ho iniziato a fare il cuoco, andando a cucinare nelle case delle persone”, ha detto) dove con la sua cucina ha deliziato i palati di gente dello spettacolo, finanzieri, politici, attori e perfino re, regine e un Papa, l’oste e cuoco siciliano (appellativi che risaltano sull’insegna del suo locale) si trasferisce nella città meneghina (“non amo la routine, mi piace cambiare”), e qui inizia la sua popolarità, grazie anche a qualche ospitata in tv. “La televisione non mi è mai interessata, in passato ho rinunciato a una importante proposta di partecipazione a un reality, dovevo fare il ruolo del cattivo, del severo, ma non mi si addice. Anche se ringrazio e sono grato a chi continua a invitarmi come ospite nelle trasmissioni”.
Il suo ristorante è sempre al completo, i fan non gli mancano, come i tanti complimenti e anche qualche critica, forse qualcuna di troppo, “quale chef non riceve giudizi negativi, non siamo impeccabili”. E nonostante questo soddisfacente successo, l’affascinante cinquantanovenne in un’altra vita farebbe tutta un’altra cosa, “se dovessi rinascere farei la rock star”. Perché tra le passioni di Filippo, oltre alle moto, c’è la musica.
Ci racconti come è iniziato il suo percorso nella ristorazione fino a diventare chef.
Il problema è che non lo sono mai diventato. Vivo questo lavoro in una maniera che va oltre il fatto di essere considerato uno chef. Conosco molti chef, che sono miei cari amici, e percepisco che abbiamo degli stili di lavoro e di impostazione totalmente differenti. Lo chef è una persona che ha studiato, ha fatto periodi di formazione, possiede una disciplina, una tecnica, ha assimilato una visione distaccata da quella del “cibo da casa”. La tecnica ti dà la costruzione del piatto, io invece sono uno che cucina d’istinto. Ho iniziato a cucinare da giovanissimo, a 13 anni facevo la spesa e preparavo qualche piatto per i miei amici, al Sud il rito della tavola è fondamentale, è condivisione, gioia, significa festa, convivialità. Ho cucinato anche per i senzatetto. È stato a 41 anni che ho detto “da oggi faccio il cuoco”.
E cosa faceva invece prima?
Dopo il liceo artistico e gli studi alla facoltà di architettura, sono andato a fare il militare. Tramite una ragazza ho conosciuto Letizia Battaglia, una grande fotografa, e ho lavorato con lei per dieci anni durante i quali ho fotografato tutta la guerra di mafia in Sicilia, a Palermo. Poi mi sono annoiato, quando non sento più mio ciò che faccio, mollo. E così nel 2001 ho lasciato la mia città per Roma, dove è iniziata la mia carriera come cuoco. Ricordo che all’inizio mi venne proposto di occuparmi di un piccolo ristorante vicino a Via Paola, non sapevo fare niente, ero abituato a cucinare per diletto a casa, non a gestire un ristorante. Ma fin da subito tutte le persone che frequentavano quel posto pensavano che fossi uno chef, così sono stato al gioco e guardando i cuochi che avevo assunto ho iniziato a cucinare, e farlo in un ristorante e non a casa è molto diverso. A Roma sono stato sino al 2013 e devo a Roma tutto, perché mi ha permesso di incontrare attraverso il cibo migliaia e migliaia di persone; ho conosciuto tutto il catalogo dei viventi, personalità straordinarie, re, regine, un Papa, capi di Stato, finanza. Grazie a questa esperienza ho potuto aprire il mio ristorante a Milano, altrimenti sarebbe stato davvero difficile.
Quindi, da Palermo a Roma e Milano, dove il suo ristorante vanta sin dall’apertura un grande clamore. Mi sembra un ottimo traguardo. Quale crede sia il segreto del suo successo? Tutto questo lo ha cambiato?
Non mi considero famoso, però mi rendo conto che la gente per strada mi riconosce, che percepisce il mio lavoro ed è sicuramente una bella cosa. Ma questo, non mi ha assolutamente cambiato, anzi a volte tendo a ritirarmi, anche per le interviste, adesso cerco di evitarle, perché penso che la visibilità debba meritarla più un giovane e ce ne sono tanti di bravi.
A proposito di giovani… Lei che consiglio darebbe a un giovane che desidera diventare chef?
Tutti parlano del cuoco perché sicuramente attira maggiormente, il camice bianco fa figo.
Invece io a un giovane consiglierei di non fare il cuoco, ma il cameriere. Per fare cucina ci vogliono i camerieri e i lavapiatti, nessuno parla di queste categorie che sono fondamentali, io senza i miei camerieri non sono nessuno, non potrei far altro che un self-service.
Qual è la sua filosofia culinaria?
La mia cucina è tranquilla, rilassata, accessibile, rifacibile, gioco sul fatto che la Sicilia ti fa pensare alle vacanze, che per me è un vantaggio, quindi chi ha un approccio con il mio cibo pensa alla vacanza, e questo è per me una cosa bellissima. Ovvio che a Milano la gente non è in vacanza, esce dagli uffici per andare al ristorante e stare un’ora e mezza rilassati e io sono quello che gli deve permettere tutto ciò, attraverso cibo e un’accoglienza a 360 gradi.
Come pensa sia cambiato fare ristorazione oggi rispetto al passato? Soprattutto con i reality e gli chef in tv.
La televisione è un mezzo di comunicazione potentissimo, non la considero reale. Non amo andarci, ma quando capita che vengo ospitato in alcune trasmissioni ci vado volentieri e mi rendo conto che la gente memorizza la mia immagine, ma non i miei piatti. Per questo non mi piace.
Qualche chef che ammira?
Sicuramente Oldani, Berton, Morelli, Cuttaia, Niederkofler, sono tutti amici carissimi con cui esco, mi confido e sento spesso. Li ammiro tantissimo perché hanno fatto della cucina uno stile di vita.
Si sente appagato o ha in cantiere un altro step?
Dire che mi senta appagato, è veramente impossibile. Vivo sempre con l’ansia della prestazione e con l’insoddisfazione determinata da un lavoro dove la prestazione deve essere ai massimi livelli. Ogni giorno mi sveglio e lavoro per gli altri, mai per me stesso. Anche se sono arrivato a un punto di non dover dimostrare più niente a nessuno, a chi piaccio è bene, a chi non piaccio non mi interessa. Nella vita quello che dovevo fare l’ho fatto. In cantiere non ho nessun altro progetto, preferisco mettere tutta l’energia all’interno del mio ristorante, che è già un grande impegno.
Non posso non citare la sua caponata, tutti ne parlano e lei ne ha addirittura scritto un libro, insieme alla sua compagna Chiara Maci. Cosa ha di così straordinario questo piatto?
È il simbolo della mia cucina, l’unica pietanza che non è mai stata criticata. La caponata è una sorta di magia, il solo piatto che faccio tutto l’anno nonostante io sia uno attento alle stagioni. Mi ricordo che nel 2002 decisi di togliere la caponata dal menù in inverno e i clienti me la richiesero, così dovetti andare di corsa al supermercato vicino al Pantheon a comprare le melanzane per fare subito la caponata. Quindi per onorare il cliente che viene al mio ristorante per mangiare la caponata, gliela faccio trovare sempre. In realtà ancora non so cosa abbia di speciale, ma è una soddisfazione sentire tutte le sere “che buona la sua caponata”!
Per altri contenuti iscriviti alla newsletter di Forbes.it CLICCANDO QUI .
Forbes.it è anche su WhatsApp: puoi iscriverti al canale CLICCANDO QUI .