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Cultura

Viaggio a Buenos Aires tra i tesori di Palacio Duhau e i gioielli di Evita

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Palacio Duhau

Park Hyatt vuol dire farsi sedurre dal richiamo irresistibile di un castello francese nel cuore di Buenos Aires, e dai due ristoranti che l’hotel ospita. Il Palacio Duhau è infatti un mondo a parte. Se non fossimo accompagnati verso il suo ristorante italiano, la bellezza degli ambienti – il Piano Nobile, il Paseo de las artes, i salotti – c’indurrebbero a perderci o, meglio, a nasconderci.

Ma la sala da pranzo del Gioia – tinte in rosso, argenteria impeccabile – è l’invito a una cena italiana fatta di equilibrio, gusto, raffinatezza e dolce far niente. D’accordo, ma per il palato? Burrata perfetta con crudo riserva, polpo e filetto, Malbec di Patagonia e coccole finali con cantucci serviti in silver plated. Con nonchalance il giorno dopo torniamo a pranzo all’Hotel, d’altronde sembrava scortese trascurare l’altro ristorante.

carne vino
Palacio Duhau

Al Duhau Restaurante y Vinoteca ci servono la miglior carne di tutta Buenos Aires. Accompagnano le portate vini argentini morbidi e favolosi, che esaltano l’esperienza in terrazza all’aperto. Antipasti come opere d’arte (uova, fantasia dell’orto, queso alla griglia), poi i cinque tagli regali della carne (tre Aberdeen Angus & Kobe, due Wagyu) mentre lieve, lievissimo, si avverte lontano il brusio della città. Contrasto acuto e intrigante, per chi non s’accontenta delle apparenze, stemperato momentaneamente dal dolce finale: crema su île flottante.

Quando lo chef viene a salutarci, conferma una verità che avevamo già ascoltato e che fa riflettere. In Argentina la soia (transgenica…) ha sostituito i pascoli di vacche. Lascia quasi sgomenti ascoltarlo sottolineare come tutti i prodotti organici della sua cucina vengano da piccoli allevatori e piccoli produttori indipendenti. L’Argentina, quest’immenso allevamento naturale della miglior carne al mondo e questo granaio inesauribile, costretta – dall’assalto incontrollato dell’agrochimica – a una logica difensiva da piccola isola.

Ma è questo il Paese nel quale stiamo viaggiando: la contraddizione tra un passato culturalmente “veterano” (come sempre accade in nazioni costruite con l’emigrazione) e una terra sconfinata pressoché vergine; e ancora il conflitto tra il grande latifondo e il popolo, nel quale la politica non riesce, oggi come ieri, a far sintesi. Terra di caudilli e rivoluzionari, nazione fatta dagli italiani e da criolli orgogliosi del proprio criollismo, qui nell’elegante quartiere della Recoleta l’ottone è il colore degli androni, tutti con un portinaio (in genere andino) a vegliare nella penombra l’uscita, o il rientro, d’inquilini benestanti, invecchiati e cortesi, per la passeggiata pomeridiana.

volto matita disegno
Marcelo Toledo

Davanti al famoso e omonimo cimitero alcuni turisti scattano foto con la stessa espressione che avrebbero a Parigi o a Seul. E’ un turismo incomprensibile che, ahimè, si spiega benissimo (temo sia il Bestiario di Julio Cortázar a rovescio, cioè la massificazione del turismo) e in gran parte diretto alla tomba di Eva Duarte. Evita e il peronismo sono ancora oggi la calamita simbolica della politica argentina: tutto (dai Kirchner a Macri) avviene in funzione neo o anti peronista.

Terra di miti: in taxi raggiungiamo San Telmo dove la galleria d’arte di Marcelo Toledo espone un mosaico di “Che Guevara Made in China”, di grande impatto e superba maestria. Marcelo ci parla anche di un’altra mostra, gioielli di sua creazione ispirata ai vestiti di Evita. Argento e mito, gloria e oblio, l’Argentina è una terra che non ama il compromesso e infatti il suo ballo iconico, il tango, è lo schiaffo immorale e perenne dei bassifondi alla classe media benpensante.

Torniamo “a Palazzo”; il car valet recupera la nostra auto. Lasciare Buenos Aires ha il sapore di una milonga malinconica, ma è tempo di partire; ci aspetta il Norte…

(to be continued)

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