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“I cantieri sono un luogo di speranza”, colloquio con Renzo Piano

Renzo Piano. (Photo by Andrew Burton/Getty Images)

Articolo tratto dal numero di luglio 2019 di Forbes Italia. Abbonati. 

“Se mi trova un casco andiamo subito a vedere il cantiere”. Renzo Piano, 81 anni compiuti a settembre (“testa dura, genovese della Vergine”, sottolinea) stupisce così il rettore del Politecnico di Milano, Ferruccio Resta, che lo accoglie per la conferenza di presentazione del “rammendo”, cioè dei lavori per il nuovo campus dell’Ateneo dove si è laureato nel ’61, affidati al suo collaboratore storico, Ottavio Di Blasi. Un rammendo, appunto, perché si tratta di trasformare tanti edifici separati in un blocco continuo, compreso il Trifoglio progettato a suo tempo da Giò Ponti, che potrebbe diventare, spiega Piano, “l’aula magna più bella del mondo”, affacciata su strutture già esistenti e su spazi nuovi: un centro di ricerca sull’architettura, diversi spazi per gli studenti. E tanto verde, “quello che non sono mai riuscito a portare a Milano”, aggiunge l’archistar, ricordando gli anni delle occupazioni studentesche. “Mi piacerebbe accompagnare questo progetto con la pedonalizzazione della via di fianco al Politecnico, dove potrebbe passare solo il tram”, affiancata da panchine cablate per studiare all’aperto all’ombra di 130 alberi.

Ecco il rammendo, così come lo vede l’archistar, convinto che, per recuperare la bellezza del Bel Paese, non serva lo stop ai cantieri. Anzi, “Non bisogna esagerare con la negatività: i cantieri sono un luogo di speranza, anzi di pace, perché si costruisce quando non c’è più la guerra”.

Ecco la filosofia di Renzo Piano, classe 1937, l’ex lupetto dei boy scout che aveva come capo Gino Paoli, di poco più anziano. Uno degli italiani più famosi – nel 1998 fu insignito del premio Pritzker (il Nobel degli architetti) consegnatogli dal presidente Bill Clinton – che a soli 33 anni cominciò a realizzare il Beaubourg, progetto scelto tra 681 concorrenti. “E poi non ho mai fatto nient’altro che l’architetto e in un modo molto artigianale. Un po’ come i mastri comacini del Medioevo che giravano per cantieri”. E che continua oggi, convinto che la sua missione sia quella di rammendare, con pazienza, il territorio del Bel Paese. Anche questo è Renzo Piano, spirito pratico che si distingue da sempre nella giungla parolaia dell’Italia.

Non appena nominato senatore a vita da Giorgio Napolitano, il 29 novembre 2013, annuncia in Commissione l’intenzione di occuparsi del “rammendo” delle periferie urbane. E non sono chiacchiere. Nasce un gruppo di lavoro, il GI 124 (dal numero dell’ufficio attribuito al senatore Piano a Palazzo Giustiniani) costituito da sei giovani architetti, il cui contratto annuale viene pagato dagli emolumenti che Piano riceve in qualità di senatore a vita (13 mila euro netti al mese). Insieme al contributo volontario di una serie di tutor – ingegneri, architetti, sociologi e psicologi – scelti personalmente da lui, i giovani selezionati elaborano una serie di progetti sui diversi aspetti delle periferie. Quest’anno l’intervento riguarda Milano, Padova, Roma e Siracusa coinvolte con le rispettive università.

“Bisogna che le periferie diventino città, ma senza ampliarsi a macchia d’olio, bisogna cucirle e fertilizzarle con delle strutture pubbliche”. Un po’ come succedeva nell’antica Grecia. “I politici quando prendevano in consegna una città assicuravano di volerla rendere più bella di quando era stata loro affidata. Bella in senso greco, cioè anche buona e giusta”. Certo, ci vogliono i soldi. Ma spesso si possono trovare senza batter cassa allo Stato. Nel caso del campus del Politecnico l’investimento è di 40 milioni di euro, di cui 5 arrivati da Regione Lombardia e 550mila da Fondazione Cariplo, mentre il resto, su suggerimento di Piano, si basa su una raccolta fondi tra alumni, come avvenuto per il suo progetto della nuova Columbia University di New York. Così già 227 ex studenti hanno donato oltre mezzo milione di euro e con 1 milione ci si può far intitolare l’aula magna, con 350mila un’aula, con 25mila un albero e con 15mila un mattone del campus.

Da sinistra: Marco Bucci, sindaco di Genova, Renzo Piano e Pietro Salini, ad di Dalini Impregilo. (imagoeconomica)

Il destino, in realtà, ha riservato a Piano qualcosa di più di un rammendo della sua città lunga e stretta: la costruzione del nuovo ponte di Genova che non si chiamerà più ponte Morandi. Un simbolo perché “Genova oggi rappresenta l’Italia, e può diventare un laboratorio per l’intero paese, capace di rimettere in moto quel percorso di manutenzione di cui abbiamo tanto bisogno. Il nuovo ponte è un simbolo, un segno di unità e un messaggio di positività”. Ma anche un altro lavoro a titolo gratuito perché “ci sono cose che si fanno anche per spirito civico, per rendere omaggio alla città che amo”.

Fin dall’infanzia che non lasciava certo prevedere un futuro così glorioso. “In terza elementare un prete disse a mia madre che ero un asino senza speranza. Mi portarono pure dallo psichiatra, che sentenziò: il bambino è normale. Solo, non sapevo studiare, ero disattento. Al liceo ero sempre rimandato, un paio di volte mi bocciarono”. Non la prese bene papà Carlo, “un piccolo costruttore, un po’ più di un capomastro, che andava sempre in cantiere con la cravatta e il cappello”, quando Renzo, finalmente promosso, gli comunicò di voler fare l’architetto”. “Perché vuoi fare solo l’architetto quando puoi laurearti in ingegneria e fare il costruttore?”. Ma Renzo tenne duro. “Diventare architetto è stato un modo pacifico di ribellarmi. Questa scelta fu un po’ il paradigma delle mie eresie successive”.

Già, l’eresia ‘costruttiva’ che è stata la costanza di questo ribelle a metà che ricorda così gli anni della contestazione pre ’68 (si è laureato nel 1964): “Di giorno lavoravo a Milano nello studio di Franco Albini, un genio, e di notte occupavo l’università, con Camilla Cederna (giornalista e scrittrice ndr) che ci portava i cioccolatini”. È qui, seguendo le lezioni di Giuseppe Ciribini su Modulazione e coordinamento modulare (“un tema se vuoi noiosissimo, una specie di autoflagellazione”) e lavorando quasi di nascosto con Franco Albini (“erano anni in cui sembrava più importante occuparsi esclusivamente di temi sociali e politici”), che matura lo stile di Piano, un mix tra la passione per il mestiere del costruire e “l’ansia sociale che vado cercando in giro per il mondo. In questo senso la mia attività è politica”. Vedi l’ospedale di Entebbe in Uganda, un centro di eccellenza di chirurgia pediatrica sulle rive del lago Vittoria, o l’hospice per malattie pediatriche che sarà completato a Bologna entro il 2020, finanziato dalla fondazione Seragnoli.

Anche questo serve a raccontare l’architetto più famoso d’Italia, a capo del Renzo Piano Building Workshop, lo studio di architettura che nel 2017 ha registrato un giro d’affari di 16,3 milioni di euro (+31%), al secondo posto in Italia per fatturato ma al primo per utili (2,280 milioni). Se si guarda invece alla denuncia dei redditi (pubblicato sul sito del Parlamento) Piano è oggi il parlamentare più ricco con un imponibile pari a 2.990.294 euro, per la maggior parte dichiarato in Francia, dove risiede (in una casa parigina del Marais che guarda il suo Beaubourg, che resta l’opera a lui più cara). Niente male per un ex somaro, che ama la cultura del fare. Non le polemiche. Nemmeno quelle sulla Tav: “Ho un’idea ben precisa, ma la tengo per me”.

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