A chi mai verrebbe in mente di scrivere una lettera d’amore alla grande impresa?
Tyler Cowen, professore d’economia alla George Mason University e intellettuale onnivoro, gode della fama ingrata del bastian contrario. Fama ingrata, dicevamo, perché in lui l’indubbio talento e un certo compiacimento per l’esposizione di punti di vista inconsueti non si alimentano del desiderio di stupire i borghesi, bensì di una rara capacità di abbandonarsi al ragionamento spassionato, affrancato dalla zavorra del senso comune: ciò che induce anche il lettore più scettico a riconoscere, se non la bontà, l’ingegno delle sue tesi.
A differenza dei troppi provocatori a buon mercato che esplorano con approccio ragionieristico le scontate conseguenze di premesse inaccettabili, Cowen mette a disagio perché rùmina con esiti imprevedibili assunti su cui ciascuno potrebbe agevolmente convenire. Questa lucidità, per così dire, obliqua emerge con la massima evidenza nel suo ultimo libro – “Big Business. A Love Letter to an American Anti-Hero” – che prende le mosse proprio da due considerazioni ovvie: dobbiamo alla grande impresa la maggior parte dei beni di cui godiamo; ed è sempre la grande impresa a dar da vivere alla maggior parte di noi. Ma se è proprio la grande impresa a fornire “le risorse che rendono la nostra vita non solo tollerabile, ma confortevole”, perché la sua popolarità è sempre più traballante?
Secondo un sondaggio Gallup del 2016, appena il 18% degli americani dice di fidarsi “molto” o “abbastanza” della grande impresa (solo il Congresso fa peggio), mentre il dato sale al 68% per la piccola e media impresa (solo l’esercito fa meglio). In parte, spiega Cowen, il problema è che siamo tanto strabicamente assuefatti alle glorie della grande impresa da darle per acquisite, mentre amiamo soffermarci sulle sue mancanze – difficilmente farebbe notizia un titolo come “Un’altra giornata fantastica per le aziende, che hanno prodotto beni e mantenuto le persone occupate”. Alla sfiducia prevalente, però, contribuisce anche il successo di critiche tanto diffuse quanto superficiali, alla cui disamina l’autore del volume si dedica con lodevole rigore.
È vero, per esempio, che le imprese tendono ad approfittarsi della buona fede delle persone? A ben vedere, uno dei motivi per cui le grandi imprese diventano grandi è proprio la loro capacità di coltivare la fiducia di consumatori e dipendenti, offrendo condizioni di lavoro apprezzabili e prodotti di qualità costante. L’evidenza non supporta l’idea che le grandi imprese abbiano una propensione all’inganno superiore a quella delle piccole imprese o persino dei singoli individui, che del resto non hanno una reputazione altrettanto preziosa da difendere, né sono sottoposti al medesimo livello di scrutinio.
Che dire, allora, degli stipendi oltraggiosi dei dirigenti? Non suggeriscono l’esistenza di rendite di posizione o, peggio, di una radicale corruzione del sistema economico? Anche in questo caso, Cowen la vede diversamente. È vero che tra il 1980 e il 2003 la paga media di un ad è cresciuta del 500%, ma tale andamento è in linea con quello dalla capitalizzazione di mercato delle imprese. In altre parole, gli spettacolari emolumenti dei top manager sembrano riflettere – e, secondo alcune stime, solo in parte – il valore aggiunto del loro talento: un talento raro come quello sportivo e remunerato di conseguenza.
Pagina dopo pagina, Cowen smonta – o ridimensiona – molte delle accuse che circondano la grande impresa, travolgendo convinzioni assai radicate. Opprime i lavoratori? No: li mette in condizione di realizzarsi – è dimostrato che il lavoro produttivo contribuisce al benessere psichico: ragione in più per dubitare dell’idea di un reddito di cittadinanza – e risponde alla pressione competitiva offrendo loro condizioni più favorevoli. Monopolizza i mercati e sfrutta i consumatori? Nemmeno: nella maggior parte delle industrie, all’aumento della concentrazione – peraltro, sovente indotto da una regolamentazione troppo pervasiva – non corrisponde un analogo aumento dei prezzi. È schiava della finanza? Non ci siamo ancora: il settore controlla una quota modesta e costante della ricchezza nazionale e mercati finanziari efficienti beneficiano anche il grande pubblico. Controlla i governi? Niente da fare: talora le imprese riescono a condizionare singoli provvedimenti, ma non v’è alcuna evidenza di un’influenza generalizzata sulla sfera pubblica.
Tutti questi equivoci hanno, per Cowen, una matrice comune: l’antropomorfizzazione della grande impresa. Trattiamo le aziende come persone e applichiamo loro le stesse categorie che tipicamente riserveremmo alle persone. Le aziende, invero, stanno al gioco: rispondono ai nostri tweet, indicono programmi di fidelizzazione per esserci amiche, sottoscrivono campagne sociali. Così facendo, inflazionano le nostre aspettative e si mettono nella condizione di deluderle, una volta chiaro che ci frequentano per interesse e non per il privilegio della nostra compagnia. In qualche misura, la personalizzazione favorisce le imprese, stimolando consumatori e dipendenti alla lealtà; per altro verso, però, disvela i loro limiti. Per quanto sin qui esposto, gli argomenti a favore della grande impresa sembrerebbero tratti da un’arringa, più che da una lettera d’amore, e parrebbero incarnare una riformulazione della prospettiva riduzionistica cara a Milton Friedman, che individuava nel profitto la sola responsabilità sociale di un’azienda. Ma Cowen, a ben vedere, ricerca una terza via: «Friedman non comprese che i fondamenti culturali, intellettuali, ideologici ed emotivi dell’impresa vanno ben oltre l’attaccamento al profitto. […] È preferibile pensare alla massimizzazione del profitto come a un’utile finzione che riesce a favorire i profitti proprio perché rifiuta di enfatizzare esclusivamente lo scopo del profitto».
Le aziende di maggior successo, allora, sono quelle che riescono a incastonare la ricerca del profitto in un coerente reticolato morale, tanto che per Cowen «l’impresa è, al suo meglio, un’attività fondamentalmente etica». Un’istituzione da amare: ma senza perdere di vista che anche i grandi amori possono finire.
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