dal numero di novembre di Forbes Italia
Muoversi in anticipo e lavorare per il futuro: è la strategia di Benedetta Arese Lucini, che ha avuto la fortuna di coltivare il suo american dream e la capacità di realizzarlo: dalla scoperta della Silicon Valley nei primi anni del secolo alla creazione della sua startup: Oval Money. Ci è arrivata dopo un’intensa, esaltante e formativa esperienza in Uber, la disruption per eccellenza, che lei stessa ha lanciato in Italia. Nei nuovi uffici di Oval Money, nel centro di Torino, si respira e si vede il progetto e la sua crescita: dal team dei fondatori (con lei Claudio Bedino, Edoardo Benedetto e Simone Marzola) a 50 persone in poco più di due anni, tra l’Italia e Londra, dove adesso Benedetta vive.
Oval Money è al centro della rivoluzione dell’open banking, appena cominciata: le banche dovranno rendere disponibili i loro dati per permettere a soggetti terzi di inventare e proporre nuovi servizi digitali (vedi box). Oval Money è uno di questi, unico per le sue caratteristiche in Italia, al punto da aver attirato l’attenzione di investitori strategici come Intesa Sanpaolo (che ha investito 4 milioni di euro nel 2018). “Abbiamo cominciato a lavorarci più di due anni fa in vista dei cambiamenti che avrebbe portato la direttiva Psd2 (Payment services directive 2). E sappiamo che è un progetto di lungo termine, siamo solo agli inizi”, dice la Arese Lucini, 36 anni e una passione per tutti i temi dell’imprenditoria digitale e innovativa – “Ho voglia di restituire un po’ di quello che ho imparato in questi anni” – che lascia spazio solo per qualche corsetta nei parchi londinesi: “Ho fatto anche una maratona e qualche mezza maratona. O corro o volo…”.
Che cosa fa Oval Money?
Oval Money è ciò che in gergo si chiama un tpp, third-party provider, regolato dalle norme inglesi: una terza parte che può intervenire nella relazione tra banche e clienti. Attualmente il nostro principale prodotto è una app, Oval, che permette di aggregare i dati di diversi conti correnti; di avere una carta di debito: OvalPay, lanciata da poco con Banca5; e di fare investimenti. A fine 2019 stimiamo oltre 350mila registrati, il 70% in Italia, il 25% in Gran Bretagna, il resto in Europa. In prospettiva vogliamo diventare una piattaforma digitale di distribuzione di servizi finanziari.
Il mercato fintech e, in particolare, l’open banking, non è già affollato? Come avete fatto a convincere la prima banca italiana a investire sul progetto?
Beh, Oval Money ha una sua unicità nel panorama italiano: è una piattaforma orizzontale che riunisce diversi servizi, quelli attuali e altri ne arriveranno, mentre molte imprese stanno sviluppando proposte verticali. Negli Stati Uniti, invece, c’è qualcosa di simile a Oval. Con Intesa è stata una trattativa molto lunga, in cui alla fine è stata riconosciuta la solidità e la qualità del nostro progetto.
Con l’entrata in vigore della direttiva europea si sta davvero sviluppando il mercato dell’open banking?
Si e no. Noi abbiamo cominciato a lavorare più di due anni fa in attesa di questo cambiamento e sappiamo che il nostro è un progetto a lungo termine, che non genera ricavi a breve. Prima dobbiamo lavorare per sviluppare una moderna educazione finanziaria basata sulle tecnologie digitali, poi cominceremo a generare profitti. Serviranno ancora un paio di anni per sviluppare il mercato. Stiamo lavorando per il futuro.
Perché serve ancora tempo?
C’è stata poca comunicazione verso i clienti delle banche. C’è poi un gap tra le aspettative degli utenti più informati e l’effettiva offerta degli istituti di credito. Per ultimo non si sa ancora quante “terze parti” come noi entreranno sul mercato e soprattutto come si comporteranno.
Quindi l’open banking comporta dei rischi? A che cosa bisogna prestare attenzione?
Come sempre, bisogna leggere attentamente le condizioni e controllare come verranno utilizzati i nostri dati. Bisogna poi domandarsi chi c’è dietro al soggetto che propone i servizi, verificare la sua reputazione e attendibilità. Per le aziende c’è anche un tema di privacy e di sicurezza dei dati.
Come avete lavorato in questi due anni e come state sviluppando i nuovi pezzi di Oval?
I nostri nuovi uffici di Torino sono la dimostrazione fisica di un metodo di lavoro: non siamo organizzati per funzioni (marketing, sviluppo, etc.) ma in “squad”, squadre multidisciplinari che come mini startup gestiscono un progetto dall’inizio alla fine. È poi nostra intenzione fare della sede di Torino un hub di innovazione per la città. Abbiamo in programma il lancio di un Oval School per fare formazione post laurea o per chi passa da un lavoro tradizionale a un impegno in una startup. Sono mondi e modi di lavorare diversi.
Una cosa imparata nell’esperienza di Uber che è tornata utile nel tuo progetto imprenditoriale?
Che il curriculum non è lo strumento migliore per valutare una persona. Quanto fai vera innovazione non puoi scegliere le persone solo in base a quello che hanno fatto. Chi avrei dovuto assumere in Uber: gente dai radiotaxi? Preferisco chi ha girato il mondo, ha voglia di mettersi in gioco, non ha paura di sbagliare e crescere con la società. Chi si muove velocemente e sa guardare al futuro”.
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