Da alcuni giorni si discute intensamente, a partire dai social network per arrivare sulle pagine dei giornali, della speranza offerta da un farmaco giapponese per la cura del Coronavirus. Si tratta del Favipiravir (nome commerciale Avigan), un antivirale autorizzato in Giappone dal marzo 2014 per il trattamento di forme di influenza causate da virus influenzali nuovi o riemergenti e il cui utilizzo è limitato ai casi in cui gli altri antivirali sono inefficaci.
La speranza è stata accesa da alcuni report provenienti dalla Cina, secondo i quali il farmaco avrebbe dimostrato la sua efficacia nel trattamento dei pazienti.
Il farmaco è prodotto dalla Toyama Chemical, azienda del gruppo Fujifilm, più nota nel mondo per la produzione di pellicole. Dopo un iniziale scatto in Borsa mercoledì scorso, quando il titolo ha guadagnato il 15%, gli entusiasmi sembrano essersi però spenti.
La stessa azienda produttrice, per bocca di un portavoce ha chiarito di non aspettarsi un impatto diretto sugli utili dalle potenziali vendite di Favipiravir in Cina, almeno per il momento, dato che la sua licenza nel Paese per il componente chiave del medicamento è scaduto l’anno scorso. Vi sarebbe inoltre un’azienda cinese già incaricata dal governo di Pechino di produrre una versione generica del farmaco, ha scritto la Nikkei Asian Review.
Quanto alle vendite in Giappone, l’azienda ha detto di non avere al momento un target. Su territorio nipponico il farmaco è infatti ancora in fase di test per il trattamento del Coronavirus. E potrebbero quindi essere necessari mesi per un eventuale via libera.
Inoltre l’uso del favipiravir per Covid-19 non è al momento autorizzato negli Usa e nemmeno in Europa.
Avigan, i dubbi dell’Agenzia italiana del farmaco
Proprio ieri l’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, ha chiarito che vi sono “scarse evidenze scientifiche sull’efficacia”.
“Ad oggi – ha spiegato l’Agenzia – non esistono studi clinici pubblicati relativi all’efficacia e alla sicurezza del farmaco nel trattamento della malattia da COVID-19. Sono unicamente noti dati preliminari, disponibili attualmente solo come versione pre-proof (cioè non ancora sottoposti a revisione di esperti), di un piccolo studio non randomizzato, condotto in pazienti con COVID-19 non grave con non più di 7 giorni di insorgenza, in cui il medicinale favipiravir è stato confrontato all’antivirale lopinavir/ritonavir (anch’esso non autorizzato per il trattamento della malattia COVID-19), in aggiunta, in entrambi i casi, a interferone alfa-1b per via aersol. Sebbene i dati disponibili sembrino suggerire una potenziale attività di favipiravir, in particolare per quanto riguarda la velocità di scomparsa del virus dal sangue e su alcuni aspetti radiologici, mancano dati sulla reale efficacia nell’uso clinico e sulla evoluzione della malattia. Gli stessi autori riportano come limitazioni dello studio che la relazione tra titolo virale e prognosi clinica non è stata ben chiarita e che, non trattandosi di uno studio clinico controllato, ci potrebbero essere inevitabili distorsioni di selezione nel reclutamento dei pazienti”.
La Commissione Tecnico-Scientifica di Aifa, che rivaluta quotidianamente tutte le evidenze che si rendono disponibili al fine di poter intraprendere ogni azione (inclusa l’autorizzazione rapida alla conduzione di studi clinici) proprio nella seduta di oggi si esprimerà in modo più approfondito rispetto alle evidenze disponibili per il medicinale.
La comunicazione dell’Aifa si conclude esortando “a non dare credito a notizie false e a pericolose illazioni”.
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