Come se i lavoratori di mezzo mondo non avessero già abbastanza di cui preoccuparsi in questo momento, ci si mettono pure alcune rievocazioni storiche particolarmente ottimistiche. Come quelle che ricordano che ci volle la peste bubbonica del Quattordicesimo secolo per far rinascere l’Europa, e dunque l’Occidente, sotto il profilo della tecnologia e della creatività. È vero che dopo il passaggio della yersinia pestis, e delle decine di milioni di morti che l’accompagnarono in Eurasia, la disponibilità di terra favorì (molto lentamente) l’accumulazione di capitale da parte dei coltivatori più avveduti, e la scarsità di braccianti costrinse i feudi a investire in innovazione. Ma si può parlare del futuro della tecnologia proprio nel bel mezzo di una crisi sanitaria ed economica epocale, senza apparire cinici?
Secondo Brookings Institution, uno dei più importanti think tank degli Stati Uniti, si può e si deve valutare l’impatto sul mondo del lavoro della pandemia di Covid-19, e sull’automazione in particolare. Qualunque sia il tipo di recessione legata al coronavirus che ci ritroveremo nei prossimi tempi, spiega l’istituto in una ricerca pubblicata la settimana scorsa, potrebbe verificarsi la sostituzione di milioni di persone in carne ed ossa con dei robot. In altre parole, alcuni dei posti di lavoro persi a causa del virus non torneranno mai più a chi li occupava prima: poiché le società ristruttureranno il loro business in modo tale da fare affidamento più sulle macchine che sulle persone, e al tempo stesso ritrovare una maggiore autonomia nell’evenienza di future emergenze come quella attuale.
A prima vista, non sembra esserci una relazione intuitiva tra recessioni economiche e automazione. Da un lato, la transizione verso i robot sembra una tendenza costante a lungo termine indipendente dai disastri naturali. Dall’altro, può sembrare scontato che l’aumento clamoroso della disoccupazione mondiale nei prossimi mesi renderà il lavoro umano relativamente più economico, riducendo gli incentivi a ricorrere ai robot. Sfortunatamente, per i lavoratori più esposti al rischio di questa situazione surreale, le cose sono più complicate.
Secondo Mark Muro, professore associato del Brookings Metropolitan Policy Program, il trend delle aziende a investire sui robot per aumentare la produttività ha subito un’accelerazione durante l’ultima crisi finanziaria, la recessione indotta dal coronavirus – o, per meglio dire, che i governi si stanno auto-imponendo per rallentare la pandemia – non sarà diversa. L’infiltrazione dei robot nella forza lavoro non avviene a un ritmo costante e graduale, spiegano da Brookings, ma si concentra soprattutto nei periodi difficili come gli shock economici, quando gli esseri umani diventano relativamente più costosi man mano che i ricavi delle aziende diminuiscono. È in questi momenti che i datori di lavoro eliminano i lavoratori meno qualificati e soprattutto cercano un modo per non restare bloccati nel caso una crisi sanitaria o un disastro naturale dovessero ripresentarsi.
Pensiamo non soltanto alle notizie che fanno colore, come quella sulla mezza dozzina di robot “assunti” da un ospedale veneto per far fronte al lavoro sfiancante degli operatori sanitari, e consentire loro di assistere i pazienti a distanza. Per quest’anno, nel mondo, secondo una ricerca del 2018 della International Federation of Robotics, ci sarebbero dovuti essere lavoro 3 milioni di robot soltanto nel settore industriale. In Italia, sono già uno ogni 500 addetti dell’industria. Con il calo brusco della domanda e col fatto che anche molti degli addetti alla manutenzione di questi robot sono costretti a stare a casa, pur di frenare la pandemia, è probabile che molti di questi robot si trovino senza lavoro. È importante guardare però alle tendenze più ampie.
Sulla natura ciclica dell’automazione hanno scritto diversi economisti importanti. Nir Jaimovich dell’Università di Zurigo e Henry Siu dell’University of British Columbia hanno spiegato che nelle recessioni degli ultimi 30 anni l’88 per cento delle perdite di posti di lavoro si sono verificate in occupazioni automatiche “di routine”. Altri esperti si sono impegnati altre volte a spiegare che, fra robot e software, a sparire non saranno tanto posti di lavoro, ma compiti e mansioni ripetitive.
Pensiamo però ai supermercati – luogo imprescindibile di approvvigionamento durante l’epidemia del coronavirus – che dipendono ancora in modo determinante da lavoratori umani. In questi giorni si è discusso a lungo della necessità di bilanciare la tutela dei cassieri con la necessità di tenere aperti i supermercati il più a lungo possibile in modo da non creare assembramenti. Oppure, pensiamo al ruolo dei lavoratori dei call center per dare informazioni ai cittadini spaesati su problemi di qualunque tipo, a rischio di sostituzione con gli assistenti digitali. O ai milioni di autisti che potrebbero vedere il loro camion e autobus partire senza di loro, durante le epidemie, pur di collegare paesini altrimenti isolati.
È importante sottolineare che, sebbene l’automazione possa riguardare tutti i posti di lavoro, non tutti sono ugualmente a rischio. In totale, secondo Brookings, sono 36 milioni i posti di lavoro che negli Stati Uniti hanno una “elevata” suscettibilità all’automazione. Il 25 per cento del totale dell’occupazione statunitense, concentrato principalmente nel settore dei trasporti, degli uffici amministrativi e della preparazione del cibo. In altre parole, come suggerisce già uno studio del 2019 dello stesso think tank sulle tendenze dell’automazione, la minaccia dei robot non è distribuita uniformemente in società; saranno i lavoratori a basso reddito, i giovani e le minoranze a essere colpiti, quando questa pandemia spingerà il Paese in una vasta recessione. Mentre ristoranti e bar chiudono durante la pandemia, nel settore alimentare l’alta concentrazione di lavoratori under 50 li rende particolarmente esposti. Allo stesso modo, i lavoratori ispanici potrebbero essere più a rischio di qualsiasi altro gruppo etnico a causa la loro eccessiva rappresentazione nel settore delle costruzioni e della ristorazione.
In termini geografici, il lavoro del Brookings sottolinea come a restare più vulnerabili a investimenti in robotica siano le aree della Rust Belt, tra i monti Appalachi settentrionali e i Grandi Laghi, già colpite da decenni dal decadimento urbano e lo spopolamento, dovuti al declino delle industrie un tempo floride. L’arrivo delle macchine, in questa regione, si somma al danno arrecato dalla pandemia alle supply chain globali, che impattano sulle industrie manifatturiere occidentali: “Sono catene – ha scritto Cesare Alemanni in questi giorni – la distribuzione e la logistica, così essenziali al funzionamento delle nostre società da essersi camuffate col panorama. Così intrecciate al tessuto del quotidiano che le abbiamo perse di vista”.
Alemanni poi fa notare giustamente che il virus non è “un singolo shock localizzato nel tempo e delimitato nello spazio, ma un’onda lunga di scosse che si propagherà in tutto il mondo”. E che dunque la risposta non potrà essere soltanto una ulteriore “iniezione tecnologica” negli ingranaggi della supply chain “ma un ripensamento della sua intera infrastruttura e dei principi su cui poggia”. Per quanto riguarda le implicazioni che queste considerazioni comportano, c’è da immaginare un ripensamento più profondo e rapido degli equilibri geopolitici e commerciali tra i Paesi del Wto. Più facile a dirsi che a farsi.
La morale è che i limiti del sistema che funzionava prima non ci devono distogliere dal fatto che la fine dell’epoca d’oro dell’occupazione americana non esclude una contestuale impennata dell’automazione, in Occidente come in Cina. E i segnali in questa direzione sono molteplici. E i pericoli che la previsione di Brookings si avveri, senza reti di protezione e ri-qualificazione adeguate, sono dati anche dall’enorme fetta dei lavori poco retribuiti e poco qualificati che abbondavano prima della crisi. È probabile che qualsiasi recessione, se non potrà essere risolta con la fiducia nei robot, potrebbe provocare cambiamenti duraturi in un mercato del lavoro già in rapida evoluzione. Per i lavoratori già in difficoltà in molti Paesi del mondo, questi cambiamenti potrebbe complicare anche il ritorno alla normalità.
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