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Dai fondi di investimento alla fondazione di Renzo Rosso, storia di Arianna Alessi

Arianna Alessi

di Annalia Venezia

Quando quell’estate del 2009 ha conosciuto l’imprenditore Renzo Rosso in Sardegna, mai avrebbe creduto che 11 anni dopo sarebbero stati ancora insieme. E soprattutto che avrebbero passato la maggior parte della loro vita a sviluppare progetti per la Fondazione OTB. Arianna Alessi, classe 76, è una donna manager tutta d’un pezzo. Riservata e poco amante dei riflettori, è riuscita a farsi spazio nel complesso mondo del fondatore di Diesel grazie al suo piglio pratico e a quella determinazione che, in pochi anni, le ha fatto conquistare la fiducia di un uomo di grande esperienza e con qualche delusione personale alle spalle. «Quando ho conosciuto Arianna era una donna di successo, si occupava di fondi di investimento e operazioni straordinarie, comprava aziende per altri e girava tra Dubai, Pechino e New York. Ha rinunciato al suo lavoro per stare con me e gliene sono grato», mi confidò Rosso durante un’intervista. Non è un caso che proprio lei gli abbia consigliato di investire in marchi come Marni e NaturaSì. «È una deformazione professionale la mia, leggo sempre le notizie di economia per prime», commenta lei quando glielo faccio notare.

Gli argomenti in comune tra loro sono sempre stati molti, nonostante la differenza di età: «Tra i due la più anziana sono io», scherza Alessi. Che quando conobbe l’imprenditore usciva da una storia di grande dolore che l’aveva resa più forte, ma anche più impermeabile agli affetti. Insieme 4 anni fa sono diventati genitori di Sydne e grazie alla solidità del loro rapporto negli anni sono riusciti a tenere unita la grande famiglia allargata di Rosso, con gli altri 6 figli (Andrea, Stefano, Alessia, Asia, Luna e India) avuti dalle due relazioni precedenti.

«Renzo non ha bisogno dei miei consigli per prendere decisioni, però confrontarsi fa sempre bene», commenta la manager. Come successe per il quadro di Basquiat che l’imprenditore veneto ha in sala da pranzo. Rosso si è appassionato di arte negli ultimi anni ma spendere grandi cifre per le opere lo fa sentire in colpa (le quotazioni dell’artista vanno da 1 ai 50 milioni di euro). «Così, per rasserenarlo, gli ho detto: “Prendilo, poi tra un anno lo rivendi e ci guadagni”. Con quella frase si è convinto ma poi il quadro non è più uscito di casa», ride lei.

Dal 2017 Arianna Alessi è diventata vice presidente della OTB Foundation, che Rosso ha fondato nel 2008. «Rendere pubblico l’impegno sociale non è mai stato il mio forte», mi spiegò il presidente del gruppo OTB, sempre durante quell’intervista. «Cambiai idea dopo un volo accanto al Dalai Lama: “Renzo, metti il tuo nome su tutto ciò di cui vai fiero, sarai un punto di riferimento per gli altri”, mi disse. Così ho fatto».

Da allora, l’organizzazione no-profit ha sostenuto oltre 250 progetti, dal restauro del Ponte di Rialto a Venezia alla realizzazione di una scuola media terremotata a Sarnano nelle Marche, oltre che progetti internazionali come l’ultima donazione fatta al progetto Pink Shuttle, mezzi di trasporto per le donne guidati dalle donne di Kabul, una sfida verso l’indipendenza femminile che ha avuto grande successo. Tutti progetti scelti con l’intento di contribuire allo sviluppo di persone e aree svantaggiate, e lottare contro le disuguaglianze sociali. «La regola aurea della fondazione è che i costi operativi siano vicini allo zero», spiega Alessi. «La fondazione vive dei contributi di ognuna delle aziende del gruppo e di donazioni esterne. Non vogliamo intermediari e ogni centesimo viene investito nelle attività della fondazione», aggiunge.

Recentemente, durante la pandemia, OTB Foundation è stata tra le più attive in Italia, dando sostegno in primis al Veneto ma anche alle altre regioni, 13 su 20 per l’esattezza. Con risultati inimmaginabili. «Dall’inizio dell’emergenza abbiamo dormito poche ore per notte, ci siamo attaccati al telefono e abbiamo reperito da ogni parte del mondo tutto il materiale che poteva essere utile agli ospedali e alle case di cura. Casa nostra, a Bassano del Grappa, era un via-vai di materiale da controllare e poi spedire a destinazione. Alcune mascherine non erano regolari e le abbiamo dovute rimandare indietro purtroppo. Anche Renzo ha contributo a chiudere i pacchi e a caricare sui camion il materiale», racconta Alessi.

In pochi giorni sono stati consegnati un milione di dispositivi di protezione individuale in 65 strutture, tra ospedali e residenze per anziani. Cifre incredibili considerato che molte farmacie ancora oggi ne sono sprovviste. «Abbiamo raggiunto case famiglia, associazioni di sostegno a giovani con disabilità, enti di accoglienza per senzatetto, organizzazioni religiose, la federazione dei medici pediatri, Croce Rossa e Croce Verde. E sostenuto quasi 300 famiglie con la spesa di beni e farmaci di prima necessità. È stato un lavoro estenuante ma contribuire in quel momento difficile per tutti era necessario», aggiunge.

Qual è il senso di una fondazione oggi?

«Renzo è convinto che bisogna donare a chi ha di meno. Penso ai temi come l’ambiente e al bene comune che riguarda il nostro futuro e quello dei nostri figli. Non possiamo voltarci dall’altra parte».

Qualcuno sostiene che le fondazioni possano portare alle aziende agevolazioni fiscali.

«La reputazione di un’azienda è un valore e oggi è importante almeno quanto i profitti che fa. Qualcuno forse userà le fondazioni nel modo sbagliato ma non è il nostro caso. I nostri bilanci sono trasparenti e a costi quasi zero. Chi usa le fondazioni nel modo sbagliato col tempo ne paga le conseguenze».

Qual è il consiglio che Rosso le dà sempre?

«La frase che ripete come un mantra è di non lanciare un sasso nello stagno. Renzo è un uomo pratico e di grandi visioni, io cerco di realizzare le sue aspettative, rispettando le regole che ci siamo dati: concretezza, sostenibilità e impatto sociale diretto».

Le capita di contraddirlo?

«Di solito ha ragione lui, l’esperienza che ha Renzo non mente. Ma durante l’emergenza è successo che io abbia creduto in un’idea più di lui. E alla fine si è complimentato».

Quale idea?

«È successo a fine marzo, durante l’emergenza Covid. Per bloccare il virus era necessario dividere le famiglie positive al virus, servivano spazi che potessero accogliere ospiti positivi asintomatici. Avevo apprezzato l’Hotel Michelangelo di Milano e volevo replicare la stessa iniziativa qui in Veneto. Renzo sosteneva che fosse una bella idea ma difficile da gestire. Non mi sono arresa e nel giro di 24 ore ho ricevuto la disponibilità di due strutture. Il Piccolo Brennero e il Ca’ Garibaldi di Bassano, che ancora ringrazio».

Come avete fatto a raggiungere in così poco tempo certi risultati?

«Abbiamo iniziato aiutando i piccoli ospedali. Avere un referente diretto dentro le strutture è stata la nostra forza. E poi per ottimizzare le spese sono stati importanti i consigli di chi era sul campo: il migliore ce l’ha dato il professor Luca Bernardo dell’Ospedale Fatebenefratelli di Milano. Ci ha spiegato che la maggior parte dei pazienti non sarebbe andata in terapia intensiva e che quindi sarebbe bastato procurarci dei respiratori di primo livello. E molte DPI».

Al Fatebenefratelli di Milano siete riusciti a convertire in otto giorni il reparto di pediatria in reparto Covid. 

«Una parte del reparto in quella fase era inutilizzata mentre 20 stanze per pazienti Covid erano preziose. Per convertire i reparti abbiamo donato purificatori d’ambiente con tecnologia avanzata, mentre stanze a pressione negativa potevano accogliere i pazienti di malattie infettive».

Delusioni?

«Ci siamo scontrati con la burocrazia. E con l’ostruzionismo del sistema sanitario in generale. Alcuni ospedali non hanno accettato le nostre donazioni, non mettendo al primo posto l’interesse del cittadino».

Qual è stata l’emergenza che non vi aspettavate?

«Durante la quarantena sono aumentati i casi di violenza sulle donne. Dati che abbiamo raccolto dal nostro servizio antiviolenza Maipiù che dà supporto psicologico e legale alle donne vittime di violenza, offrendo loro anche possibilità di tirocini formativi. E abbiamo continuato a sostenere La casa famiglia Il Piccolo Principe, che accoglie più di 40 bambini e ragazzi da 0 ai 20 anni».

E oggi che l’emergenza è finita che succede?

«Non ci fermiamo. Si continua a lavorare al fianco di Croce Rossa e Croce Verde e si sostengono le famiglie a cui mancano i beni di prima necessità. Ci stiamo procurando anche degli Ipad per aiutare i bambini con difficoltà economiche a seguire le lezioni a scuola e a fare i compiti».

E le altre attività, nate prima del Coronavirus?

«Continuano come prima».

Che cos’ha imparato da questo periodo?

«Che si può lavorare senza sosta, ma la tv va sempre spenta a pranzo e a cena. Io e Renzo abbiamo una figlia di 4 anni e non possiamo dare per scontato che ascolti il telegiornale, e capisca così presto che cosa significa morire su un letto d’ospedale».

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