gruppo di persone fuori da una azienda
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Cultura del fallimento: così corporate e startup possono imparare le une dalle altre

gruppo di persone fuori da una azienda
(Getty Images)

A cura di Marco Noseda, Chief Strategy Officer di Cariplo Factory

In Italia ci sono quasi 11mila startup innovative: purtroppo, solo poche sopravvivono più di tre anni. Molte alzano bandiera bianca perché incapaci di competere con la concorrenza, altre perché non hanno un modello di business sostenibile o semplicemente per errori di processo che rendono inadeguato un prodotto. Eppure, è proprio dai fallimenti che nascono consapevolezza e determinazione.

In Italia il fallimento è tabù

In Italia, la “cultura del fallimento”, ovvero quell’approccio che considera un insuccesso come una possibile occasione di crescita, è un tabù inviolabile. In America, invece, la consapevolezza dei propri errori è spesso alla base del successo. Nel 2016, nella sua annuale lettera agli azionisti, Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, scrisse che “il fallimento e l’innovazione sono gemelli inseparabili. Per innovare bisogna sperimentare e se si sa in anticipo che le cose andranno bene non è una vera sperimentazione.” E non ha mai nascosto di pensarla allo stesso modo anche Richard Branson, il magnate del gruppo Virgin secondo cui “le persone e le attività generalmente considerate di successo o più fortunate sono di solito anche quelle più pronte ad accollarsi i rischi e quindi a far fiasco.”

Concetti spesso estranei alla cultura aziendale italiana, ma dai quali siamo chiamati a partire per innovare: senza la capacità di commettere un errore, lo si ripeterà all’infinito. Sbagliare serve ad affinare le idee e i progetti. Spesso gli errori sono di metodo, altre volte di pratica, ma anche funzionali o di processo. Bisogna imparare a conviverci e a lavorarci insieme. Anche perché la paura, quella di fallire in particolare, è la nemica mortale delle idee.

Startup e grandi aziende: due approcci opposti

I grandi investitori lo sanno e per questo diffidano di chi non ha mai fallito: quando affidano i loro soldi a qualcuno, tendono a scegliere un imprenditore che ha già commesso degli sbagli perché confidano che abbia imparato qualcosa. E se a livello di startup il concetto ha iniziato ormai ad affermarsi – grazie anche a modelli di leadership agili e moderni –, sul fronte delle aziende più strutturate il percorso resta ancora lungo. Con una divergenza d’opinioni che spesso rende difficile la convivenza e la collaborazione tra startup e corporate senza l’aiuto di un terzo indipendente capace di agire come mediatore culturale.

D’altra parte, si tratta di due soggetti che faticano a comprendersi e che hanno una cultura dell’errore spesso diametralmente opposta. Al punto che non è raro individuare realtà che pur con affinità industriali e obiettivi complementari non riescano ad instaurare una relazione proficua. Come Cariplo Factory lavoriamo proprio nel punto di incontro tra queste due realtà e abbiamo un registro piuttosto ampio di queste “incomprensioni”. Può capitare che durante un Selection Day, in cui le startup presentano i propri progetti alle corporate, i neoimprenditori temano che qualcuno dei competitor possa copiare la loro idea o perfino rubarla. È un sentimento comprensibile, che però non ha grande riscontro nella realtà: i casi in cui un progetto si può effettivamente copiare sono pochissimi, perché ciò che conta e fa la differenza non è (quasi) mai l’idea in sé ma come viene realizzata.

Molte volte sono le imprese più strutturate che non riescono a instaurare un dialogo con la startup. Può accadere che una corporate cerchi di avviare un progetto di innovazione e inizi a collaborare con una startup. Tuttavia, definiti gli obiettivi del progetto, al momento di entrare nel vivo delle attività, qualcosa si inceppa nella comunicazione. Perché? Perché, in certi casi, le strutture e i processi della grande azienda impediscono un dialogo agile con il team della startup, che rischia di sentirsi “schiacchiata” dal peso della corporate. Il rischio è che avvenga una contaminazione al contrario, cioè invece di essere la startup a portare creatività e agilità nel progetto, è la corporate a introdurre lentezza e rigidità (che, paradossalmente, sono i fattori per cui spesso si attivano percorsi di open innovation).

Un’altra difficoltà che abbiamo registrato riguarda i tempi e le risorse per affrontare un dialogo con le aziende. A volte la startup, per inesperienza, non mette in conto che la collaborazione con una corporate assorbirà tempo ed energie sin dalla sua fase pilota, perché un’azienda consolidata ha necessariamente tempi e processi più lunghi e complessi di quelli di una giovane impresa. Un errore molto comune che deriva dalla mancata conoscenza dei processi aziendali? L’annuncio, da parte della startup (a giochi di validazione fatti), di una partnership con un grande marchio, senza però aver prima definito con la controparte tempi e modi. La comunicazione, si sa, è un tema sensibile e può generare non pochi mal di pancia. In tutti questi casi, se non si trova un dialogo, il risultato potrebbe essere quello di perdere un’occasione importante.

In fondo, da una parte abbiamo le startup che vedono il tempo come un tiranno che scappa via e sono disposte a tutto per non perdere l’occasione, dall’altra parte ci sono le corporate che prima di iniziare qualunque percorso hanno bisogno di validare un processo per non commettere errori.  Approcci diametralmente opposti che però possono imparare a conoscersi, capirsi e collaborare in modo reciprocamente vantaggioso.

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