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Cultura

Espansione, ristagno o crollo? Il futuro dei social network di destra

Donald Trump e Il futuro dei social network di destra. Espansione, ristagno o crollo?I grandi social media e colossi digitali sembrano arrivati a un punto di non ritorno. Risucchiati nella guerra culturale americana, da parecchio tempo facevano arrabbiare un po’ tutti, sia a destra sia a sinistra. Accusati dai repubblicani di censura, dai democratici di far proliferare bugie e minacce senza controllo. Alla fine hanno preso la più drastica delle decisioni. Togliere del tutto il megafono a Trump (e a qualche suo alleato). Twitter lo ha espulso in modo permanente, gli altri, tra cui Facebook, Instagram, Snapchat, lo hanno bannato almeno fino al 20 gennaio, cioè quando dovrà sloggiare dalla Casa Bianca.

Ma è davvero un risveglio di principi oppure semplice convenienza? Diciamo che il rischio politico di azzittire Trump non era poi così alto. Si è ridotto a essere un presidente banditesco che spinge qualche migliaio di paranoidi ad assediare il Congresso. Dall’altra parte, invece, c’è il partito democratico, che oggi ha in mano tutto: Casa Bianca, Camera, Senato. Lo scrutinio sui campioni digitali però continuerà comunque. Oltre a un controllo più severo delle conversazioni online, il Congresso ormai studia con sintonia bipartisan il modo di limitare (in chiave antitrust) il potere della grande tecnologia. E già prima del silenziamento completo, Facebook e Twitter etichettavano o bloccavano i messaggi di Trump più palesemente falsi e dannosi. C’è da dire che, almeno in parte, quel grottesco assalto al Campidoglio è nato sui social media. Soprattutto su quelle piattaforme come Parler, Telegram, Gab, Spreely, create come alternative senza censura a Twitter e Facebook. È lì che i trumpiani si sono scambiati messaggi, domande, condiviso strategie – “come si fa a portare armi il 6 gennaio a Washington DC?!” – per poi incontrarsi in città e sciamare insieme verso Capitol Hill.

Adesso il loro eroe, buttato giù dai social mainstream, è in cerca di un nuovo palcoscenico. Il suo pubblico resta enorme. A novembre 74 milioni di persone hanno votato per lui, il secondo numero più alto mai ottenuto da un candidato alla presidenza. Ma quello che fa veramente impressione è l’umore attuale di chi vota repubblicano. Quasi il 70% crede che il voto sia stato in qualche modo truccato, mentre un incredibile 33% pensa che sia per lo più vera la folle teoria del complotto di QAnon, secondo cui il partito democratico cospirerebbe per il controllo dell’America, e magari di tutto il mondo, con una cabala di pedofili cannibali adoratori di Satana.

Trump, che alla fine è un ingegnoso uomo di intrattenimento, non si lascerà mai scappare tutta questa abbondanza. Il problema adesso è capire dove atterrerà con la sua massa di follower. Su Twitter ne contava 89 milioni. Ci sono diverse opzioni. Negli ultimi dieci anni una pletora di canali, tra cui 4chan, Gab e Telegram, hanno permesso a quell’universo politico-sociale-culturale chiamato alt-right, la destra alternativa, di esprimersi senza troppi impiccioni liberal nei paraggi. Da quando è scattato il bando social a Trump, il ceo di Gab ha detto che il traffico nel suo sito è cresciuto del 700 per cento. Si vanta che fra poco avrà più visite del Wall Street Journal. Dlive, una piattaforma di condivisione video, ha beneficiato molto dall’esodo di utenti di destra da Youtube, Facebook e Twitter. Chi manda in onda le proprie dirette è ricompensato con moneta virtuale, i ‘lemons’, che poi si possono scambiare con soldi veri. Partecipando e filmando l’assalto a Capitol Hill, un certo Baked Alaska ha guadagnato duemila dollari. Sullo stesso sito, ma in giornate di routine, il suprematista bianco Nick Fuentes ne incassa 375. Mentre su Telegram, l’estremista di destra Milo Yiannopoulos, un tempo abituato a milioni di seguaci via Twitter, piange miseria.

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La verità, infatti, è che la maggior parte di questi social si è guadagnata negli anni una reputazione troppo tossica. E anche con la diaspora trumpiana è probabile che le cose non cambino molto. Certo, “Trump si porta dietro molta gente”, dice il professore di nuovi media, Ethan Zucherman, dell’Università del Massachussets. “Ma tante piattaforme social resteranno piccole, e con un pubblico ideologicamente molto diviso”.

Un’operazione leggermente diversa sembra (o almeno sembrava) poterla tentare Parler. Questo clone di Twitter già a novembre, mese delle elezioni, è stato la app più scaricata da Apple e Google. Dodici milioni di utenti. Giovedì scorso, dopo gli scontri a Washington, i download sono raddoppiati. Rispetto ad altri social alternativi, il progetto del ceo, John Matze, ha un grosso vantaggio: il sostegno di Rebekah Mercer, tra i maggiori sponsor di Trump, e questo vuol dire abbondanti finanziamenti. L’idea era convogliare sul sito un’umanità più variegata. Non solo squilibrati e facinorosi, ma anche conservatori in teoria rispettabili. Reietti del web come il complottista Alex Jones, bandito da qualsiasi social mainstream, si mischiavano quindi a repubblicani come il senatore Ted Cruz e all’addetta stampa di Trump Kayleigh McEnan. L’idea era creare uno spazio per i conservatori libero da fastidiose censure.

Per certi versi si è formata una bolla non così lontana da quelle che già esistono su Twitter e Facebook. Parecchi ammiratori di Trump che abitano realtà parallele. Solo con contenuti molto più estremi. Insomma, una cosa sul filo del rasoio, che poteva strabordare da un momento all’altro. Ed è successo. In un post, condiviso migliaia di volte, si inneggiava alla fucilazione di Mike Pence, il vicepresidente, colpevole di aver tradito l’infallibile capo (Donald Trump). Per Apple e Google si era passato il segno. Le due società, che effettivamente agiscono da gatekeeper per sistemi operativi di cellulari, hanno espulso Parler dai propri app store. E poi Microsoft ha chiuso il suo server.

Adesso Parler è sparito da internet. Il ceo John Matze è a terra con tutta la sua baracca. Dice che si rialzerà in una settimana, e forse davvero gli riesce. L’immenso pubblico di Trump lo aspetta. L’importante è che abbia imparato la lezione, dice Sarah Roberts dell’Università della California: i fatti recenti insegnano che per attirare una comunità più vasta, cioè crescere davvero come business, i social alla lunga hanno bisogno di un certo controllo sui contenuti. E all’orizzonte c’è un altro questione da tenere d’occhio, ed è fondamentale: uno spazio troppo omogeneo diventa noioso. Se tutti la pensano allo stesso modo non c’è più nessuno con cui litigare. Su Parler già circolava qualche protesta: “Dove sono finiti tutti quei liberal piagnucolosi da sottomettere?”.

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