Sembrava un cielo stellato, era un bel cielo velato. Christian Puglisi, siculo-norvegese classe 1982, già sous chef al Noma di Copenaghen, poi ideatore del pluripremiato Relæ, nel 2020 ha chiuso i battenti delle sue due creature più in vista (oltre allo stellato Relæ, anche il ristorante Manfreds) per concentrarsi su progetti più a misura d’uomo: un ristorante organico, Bæst, e una bakery, Mirabelle sempre a Copenaghen, la mecca mondiale del cibo gourmet biologico, riforniti da una fattoria privata gestita fuori città.
Una sorta di decrescita felice, progettata già prima della pandemia, i cui tempi vuoti hanno generato riflessioni sul fatto che sì, la ristorazione di alto livello è gratificante ma anche sfiancante, poco retribuita e dopata da continue iniezioni di competizioni e riconoscimenti, stelle Michelin in testa, che Puglisi definisce “fuffa narcisistica comandata dagli uffici marketing”. L’alternativa? Sostenibilità vera, materie prime e, soprattutto, un approccio più umano alla cucina.
Dopo aver conquistato una stella Michelin ha chiuso il suo Relæ, ristorante entrato più volte nella lista dei migliori 50 del mondo. In Italia le darebbero del pazzo. Perché l’ha fatto?
Nel 2019 ero arrivato ad avere quattro ristoranti, 150 collaboratori e tantissime riunioni che non mi lasciavano un momento libero. Poi è arrivato il Covid ed è andato tutti in frantumi. Quello che volevo ottenere l’avevo ottenuto, compresa la trasformazione di un piccolo locale di quartiere in uno dei migliori ristoranti al mondo. Ho capito che quel percorso creativo si era esaurito. Andare avanti sarebbe stata solo una questione di ego, mentre quello di cui avevo davvero bisogno era tempo.
Alessandro Borghese ha di recente rilasciato un’intervista al Corriere della Sera in cui ha dichiarato che non riesce a trovare collaboratori perché i ragazzi non accettano di fare turni massacranti ed essere sottopagati. Cosa ne pensa?
Al Relæ lavoravamo quattro giorni nordici che poi sono diventati cinque. Ho sempre ricercato un ritmo sostenibile.
Insomma, la brigata lavorava 15 ore al giorno.
Il problema non è la quantità di ore ma l’obiettivo che ti dai e, soprattutto nel caso dei collaboratori, quanto quelle ore di lavoro vengono retribuite, cioè poco. È il riflesso di un sistema in cui il cibo non è ripagato in modo adeguato.
Un pranzo o una cena al Noma o al Geranium di Copenaghen – tre stelle Michelin a testa, rispettivamente primo e secondo migliore ristorante del mondo 2021 – non sono per nulla economici.
Quelle sono le punte di diamante, luoghi creati per far vivere un’esperienza, ma il resto? Le dico una cosa: solo l’1% dei ragazzi che si approcciano a questo mondo hanno una prospettiva lavorativa che va oltre i cinque anni. Tutti gli altri si fermano prima della campanella dei 30, quando inizi a pensare a farti una vita con uno stipendio adeguato e orari diversi.
La situazione al di fuori dei salotti stellati è così problematica?
Dovremmo complimentarci molto meno con chi manipola il cibo per servire una piramide di semi di zucca e dare più attenzione alla qualità di quei semi. Vorrei che andasse per la maggiore una cucina più semplice e di maggior valore, dove conta solo la materia prima. È la fascia media della ristorazione che ci deve salvare, non quella alta.
Parliamo di ciò che sta succedendo a Copenaghen. Con il Covid alcuni ristoratori, tra cui lei, stanno avendo difficoltà a trovare personale, un inedito per una delle capitali mondiali del cibo gourmet…
I danesi non vogliono lavorare nei ristoranti, ed è sempre stato così. Ora però sono un po’ svaniti anche gli italiani che venivano qui per entrare in sala o in cucina. Possibile che con la pandemia molti di loro siano tornati in Italia.
Qualche malpensante potrebbe dire che la sua scelta di chiudere il Relæ sia dovuta al suo rapporto conflittuale con il format Michelin, è così?
Per anni la Michelin ha assegnato stelle e non è mai successo nulla di clamoroso ai ristoranti segnalati. Poi ha deciso di seguire le orme del format dei Migliori 50 Ristoranti al mondo, con liste di vincenti e perdenti, lo stesso format da cui ora diversi ristoratori vogliono uscire perché sfiancati dall’altalena continua di posizioni che cambiano anche per motivi politici. Sono sistemi totalmente fuori controllo che servono ad alimentare lo show business.
È anche colpa di Masterchef, che ha trasformato la cucina in una gara?
Sì, anche. Senza nulla togliere a chi partecipa a quei programmi, credo che cucinare debba essere una gioia, non un dramma televisivo ansiogeno. La cucina dovrebbe anche essere inclusiva, non esclusiva.
Così però crollerebbe tutto il sistema delle classifiche dei ristoranti, incluse le stelle. C’è un mercato enorme dietro.
Le classifiche servono a semplificare cose molto complesse e lo stesso fanno le guide. Non puoi valutare con un sì o con un no una cucina creata in anni di esperienza.
Parliamo di sostenibilità, uno dei cavalli di battaglia della Danimarca non solo in cucina. Lei l’ha definita “responsabilità ripulita dalle schifezze”, con chiari riferimenti alle politiche di greenwashing di alcuni. Oggi la situazione com’è?
Siamo ancora molto sul livello storytelling dettato dalle agende di marketing. Noi abbiamo ottenuto la certificazione biologica (nel 2013 il Relæ era l’unico stellato al mondo a vantare questa certificazione, ndr) e in tanti poi ci hanno seguito. Ma l’impressione è che il cliente non sia mai abbastanza critico sulla provenienza e sulla qualità della materia prima. Così è più facile per alcuni propinare cose biologiche che in realtà non lo sono.
Con il progetto Farm of Ideas lei è stato un pioniere nell’integrare gastronomia e pratiche agricole sostenibili. La sua fattoria danese nata nel 2016 ha passato indenne la pandemia?
Diciamo di sì. Siamo partiti con due ettari in cui abbiamo piantato verdure, poi ci abbiamo aggiunto le vacche, che abbiamo deciso di vendere nel 2019. Ora la fattoria è gestita da un farmer che rifornisce i miei due ristoranti operativi e anche altri ristoranti.
Lei ha contribuito a trasformare Nørrebro da un quartiere di spaccio in quello che il Time Out ha da definito “il quartiere più trendy del mondo”. Non ha rimpianti?
Non tanti, anche perché gli altri due locali sono lì vicino. Il mio periodo nostalgico l’ho avuto, ma ora è bello vedere che la tartare del Manfreds ha ispirato altri ristoranti.
Con il Noma e il Geranium lei formava la triade gourmet di Copenaghen. Chi vede ora tra le nuove realtà cittadine?
C’è l’Alchemist, un progetto estremamente ambizioso con parecchi soldi dietro.
Googlandolo si capisce il perché: lo chef Rasmus Munk, due stelle ottenute in quattro mesi, serve i suoi piatti olistici in una sala futuristica sormontata da un enorme planetarium; il proprietario è l’uomo d’affari danese Lars Seier Christensen, già possessore del Geranium, che per l’Alchemist ha investito 15 milioni di euro. Lo scorso dicembre, Reporter Gourmet aveva definito l’Alchemist “il ristorante più costoso del mondo”. I prezzi di una cena, vini inclusi, partono da 1.500 euro a persona. Come per il Geranium e il Noma, al momento le prenotazioni sono impossibili: c’è una lunga lista d’attesa.
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