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Grazie a Dio è giovedì: perché la settimana di lavoro da quattro giorni non è più utopia

Articolo tratto dal numero di novembre 2021 di Forbes Italia. Abbonati!

Alcune macchine funzionano ancora: da qui è uscita la lana dei maglioni che la signora Weasley regalava per Natale ai suoi figli e a Harry Potter. La maggior parte dell’ex cotonificio di New Lanark, a 40 chilometri da Glasgow, è stata però trasformata in una meta turistica. Ogni anno, più di 300mila persone arrivano sul fiume Clyde, poco lontano dalle cascate omonime dipinte da William Turner, per visitare il villaggio in cui l’imprenditore e sindacalista Robert Owen mise in pratica il suo socialismo utopico. O almeno, qualcosa che poteva sembrare un’utopia a un operaio dei primi anni del XIX secolo. Owen costruì la prima scuola per l’infanzia della Gran Bretagna, vietò l’impiego dei bambini sotto i dieci anni e limitò la giornata di lavoro a dieci ore e mezza, in un’epoca in cui la norma era di almeno 14. Ciò nonostante, la produttività degli operai pareggiava o superava quella degli altri cotonifici della zona. Nel 1817 Owen si spinse così a immaginare un’ulteriore riduzione e coniò la formula che sarebbe diventata, nella seconda metà del secolo, lo slogan di molti movimenti sindacali: “Otto ore di lavoro, otto ore di svago, otto ore di riposo”.

Un secolo e mezzo prima che il Movimento per la liberazione della donna rendesse popolare l’espressione work-life balance – il bilanciamento tra vita professionale e privata -, Robert Owen si occupò di un tema ancora centrale nel dibattito sul futuro del lavoro. Governi e partiti di vari paesi, negli ultimi anni, hanno infatti avviato o promesso esperimenti nello stesso spirito di quello di New Lanark: ridurre il tempo trascorso al lavoro e verificare l’impatto non solo sulla produttività e il bilancio, ma anche sul benessere psicologico delle persone, sull’ambiente e sulla giustizia sociale. E l’ultima frontiera è il taglio non solo delle ore, ma dei giorni: quattro a settimana anziché cinque, a parità di stipendio.

Qualcuno, come l’ex governatore dello Utah Jon Huntsman, lo ha proposto per ridurre i costi. Huntsman, convinto che tenere gli uffici chiusi il venerdì avrebbe permesso di risparmiare tre milioni di dollari all’anno su voci come energia e sorveglianza, istituì una settimana di quattro giorni e 40 ore per i dipendenti statali. L’iniziativa fu abortita nel 2011, quando il parlamento dello Utah stimò la riduzione dei costi in solo un milione e, in assenza di dati certi sulla variazione del rendimento dei dipendenti, avvertì che una perdita di produttività dell’1% sarebbe costata 15 milioni.

L’ex presidente del Gambia, Yahya Jammeh, ordinò invece la settimana da quattro giorni nel settore pubblico per permettere ai dipendenti di dedicare il venerdì alla preghiera e all’agricoltura. Come Huntsman, vide la misura cancellata dal suo successore.

Secondo Andrew Barnes, imprenditore che ha sperimentato il modello nella sua società in Nuova Zelanda e ha fondato poi la no-profit 4 Day week global, i quattro giorni permetterebbero anche di ridurre il divario di guadagni tra uomini e donne. Come spiega il World economic forum, “una delle principali ragioni per cui le donne sono pagate meno è che spesso lavorano meno ore dopo la nascita dei figli, perché danno priorità ai bambini rispetto alla carriera”. Con una settimana più corta, “sarebbero libere di trascorrere un giorno a settimana in più con i figli, senza essere svantaggiate rispetto ai colleghi”.

Altri insistono sui risvolti ambientali. Un rapporto di Platform London, organizzazione britannica che si occupa di ambiente e giustizia sociale, e di 4-Day week campaign, campagna per l’adozione della settimana breve, ha calcolato che i quattro giorni ridurrebbero le emissioni di carbonio del Regno Unito di 127 milioni di tonnellate all’anno: l’equivalente dell’eliminazione di 27 milioni di auto.

Il progetto che ha trovato maggiore risonanza, finora, è stato quello dell’Islanda, che tra il 2015 e il 2019 ha sperimentato diversi tagli di orario, senza diminuzioni di stipendio, in 66 luoghi di lavoro. La ricerca ha coinvolto 2.500 persone, alcune delle quali hanno lavorato quattro giorni a settimana. Autonomy, società di ricerca che ha analizzato i risultati, ha definito l’esito “un successo straordinario”. Un rapporto ha concluso che la produttività è rimasta costante o è aumentata, mentre i dipendenti hanno accusato meno stress e hanno avuto più tempo da dedicare alla famiglia e agli hobby.

Negli ultimi due anni, la settimana corta ha trovato sostegno sempre più ampio tra i politici di molti paesi. Nel 2019 Dimitri Medvedev, all’epoca primo ministro russo, disse che “i contratti di lavoro del futuro saranno basati su una settimana di quattro giorni”. Nello stesso anno i laburisti britannici adottarono la settimana corta come politica ufficiale del partito. La premier neozelandese, Jacinda Ardern, l’ha indicata come strumento per favorire la ripartenza dopo la pandemia. Quella scozzese, Nicola Sturgeon, ha promesso un fondo da 10 milioni di sterline “per permettere alle aziende di esplorare i benefici di una settimana lavorativa da quattro giorni”. In Spagna, il partito Más País ha promosso un progetto pilota per una settimana di 32 ore, per ridurre l’inquinamento e “mettere la salute mentale al centro dell’agenda politica”. E anche l’ultimo Piano economico annuale giapponese propone di incoraggiare le aziende a lasciare ai dipendenti la scelta tra i quattro e i cinque giorni. Come ha spiegato il Corriere della sera, alla radice c’è la volontà di far “mettere in cantiere più figli” alle coppie per “ringiovanire una società sempre più vecchia”.

lavoro Giappone
In Giappone esiste un termine – karoshi – per indicare la morte per troppo lavoro. Nel 2013 la giornalista Miwa Sado morì d’infarto a 31 anni dopo avere accumulato 159 ore di straordinari in un mese, e fu trovata con il cellulare ancora stretto in mano. Secondo l’Oms, nel 2016 sono morte 745mila persone per ictus e malattie cardiache riconducibili al troppo lavoro. (Foto Chris McGrath/Getty Images)

L’iniziativa del Giappone ha colpito perché è arrivata nel Paese in cui esiste addirittura un termine – karoshi – per indicare la morte per troppo lavoro. Molti giornali hanno parlato del caso di Miwa Sado, una giornalista morta d’infarto nel 2013 a 31 anni dopo avere accumulato 159 ore di straordinari in un mese, trovata con il cellulare ancora stretto in mano. Il fenomeno, però, non è solo giapponese. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, 745mila persone sono morte solo nel 2016 per ictus e malattie cardiache riconducibili al troppo lavoro. Una cifra cresciuta del 29% rispetto al 2000.

Alcuni paesi hanno già superato il tradizionale modello delle 40 ore. 

La Francia, per esempio, è passata a 35 nel 2002, i metalmeccanici tedeschi a 28 tre anni fa. Per gran parte del mondo, però, le otto ore al giorno sognate da Robert Owen sono state una delle ultime grandi rivoluzioni.

In Italia, la giornata di lavoro standard è rimasta quella che chiedevano le mondine del Vercellese a inizio ‘900: ‘Se otto ore vi sembran poche/provate voi a lavorare/e sentirete la differenza/di lavorar e comandar’. Dalla conquista del sabato libero, cinquant’anni fa, non si è quasi più discusso di riduzioni di orario. “Non è stato più un argomento perché per trent’anni l’idea dominante è stata quella della produttività a tutti i costi”, ha detto Simone Fana, autore del saggio Tempo rubato. Un’analisi pubblicata sul Post afferma che “le tendenze storiche globali in materia di orario di lavoro mostrano una riduzione graduale, ma la ragione non è una riflessione sul bilanciamento tra vita privata, salute e lavoro, ma la capacità contrattuale dei sindacati”. E per una “finta partita Iva o un lavoratore di una moderna startup, in cui il culto dell’impresa stabilisce che chi lascia la scrivania prima delle 20 è un peso di cui l’azienda deve liberarsi, la riduzione degli orari non sembra più un tema vincente”.

Proposte come quelle dell’Islanda, dunque, continuano a sembrare avveniristiche. Eppure arrivano molto in ritardo rispetto alle previsioni dell’economista John Maynard Keynes. Nonostante fosse solito dire che “nel lungo periodo saremo tutti morti”, nel 1930 Keynes provò a immaginare l’evoluzione del lavoro nei cento anni successivi: in Possibilità economiche per i nostri nipoti scrisse che i suoi discendenti avrebbero lavorato 15 ore a settimana. E ancora nel 1965, una commissione del Senato statunitense stimava che entro il 2000, grazie al progresso tecnologico, gli americani avrebbero lavorato 14 ore a settimana o – con sette settimane di vacanza – 630 in un anno. Una cifra lontanissima dalle 1.767 stimate dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) per il 2020. L’Italia, con 1.559, è sotto la media Ocse (1.687), ma sopra Germania (1.332), Regno Unito (1.367) e Francia (1.402). Dati che paiono confermare i risultati di varie ricerche sul lavoro nei settori più diversi: non esiste una proporzione diretta tra ore e produttività.

John Pencavel, docente dell’università di Stanford, ha analizzato il rendimento degli operai dell’industria bellica durante la Prima guerra mondiale e ha concluso che “il rapporto tra ore di lavoro e produttività non è lineare”: oltre una certa soglia, la produzione cresce in modo sempre più lento. E coloro che “lavorano a lungo possono accusare fatica o stress che non solo riducono la loro produttività, ma aumentano la probabilità di errori, incidenti e malattie che causano costi per il datore di lavoro”.

Un altro studio coordinato da un docente di Stanford, Eric Roberts, ha riguardato i programmatori di software e ha affermato che “l’eccesso di lavoro conduce a una diminuzione della produzione”. Ruo Shangguan dell’università di Waseda, in Giappone, ha condotto una ricerca sui dipendenti di uno studio di architettura e ha stabilito che “l’eccesso di lavoro ha provocato un calo della produttività” e “il troppo lavoro dei membri chiave del team non solo riduce la produttività, ma incrementa la frequenza dei difetti di progettazione”. E uno studio dell’università di Reading, dedicato in particolare alla settimana corta, ha concluso non solo che i quattro giorni determinano “un miglioramento della salute fisica e mentale dei dipendenti”, ma anche che “i due terzi delle aziende britanniche che operano con questo regime hanno registrato una maggiore produttività del personale”.

La ricerca di Reading riporta anche che “per il 67% dei membri della Generazione Z”, cioè i nati dopo il 1995, la settimana corta potrebbe “essere decisiva nella scelta di un posto di lavoro”. Un concetto ribadito da Robert Bird, professore dell’università del Connecticut, al Washington Post: “I ragazzi chiedono al loro ambiente di lavoro qualcosa più di un semplice assegno. Vogliono lavorare con qualcuno che crede nei loro stessi valori. E la settimana di quattro giorni fa intendere che l’azienda si interessa davvero al bilanciamento tra lavoro e vita privata”.

Anche per questo motivo molte imprese, incluse diverse multinazionali, hanno sperimentato a loro volta riduzioni dell’orario o dei giorni di lavoro. Unilever, per esempio, ha avviato nel 2020 un programma che permette ai dipendenti neozelandesi di lavorare quattro giorni a settimana e scegliere come distribuire quelli di riposo. Dopo un anno di prova deciderà se prolungare il regime ed estenderlo agli altri 150mila dipendenti mondiali. Nell’agosto 2019, Microsoft ha chiuso i suoi uffici giapponesi il venerdì. La produttività, ha fatto sapere l’azienda, è aumentata del 40% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. In Svezia, Toyota ha sperimentato invece turni di sei ore anziché otto. Anche in questo caso, con un aumento dell’efficienza.

C’è poi chi vede nel taglio dell’orario una soluzione alla disoccupazione tecnologica: la perdita di posti di lavoro dovuta a nuove tecnologie che riducono la necessità di mano d’opera. Un pericolo ancora più sentito nell’era della trasformazione digitale. Nel 2019 Stuart J. Russell, professore di informatica a Berkeley, ha affermato che “nel lungo periodo quasi tutti i lavori attuali spariranno”. Secondo Russell, crescerà l’impiego in settori come la sanità, ma “ci sarà bisogno di cambiamenti abbastanza radicali per prepararsi a un’economia molto diversa da quella attuale”. Larry Page, cofondatore di Google, è tra coloro che hanno ipotizzato la riduzione di ore e giorni di lavoro per compensare il progresso tecnologico. Una proposta che, del resto, già nel 1933 Giovanni Agnelli, presidente della Fiat, formulava in una lettera a Luigi Einaudi, in cui indicava come causa di disoccupazione “l’incapacità dell’ordinamento del lavoro” di trasformarsi alla stessa velocità “dell’ordinamento tecnico”.

Resta allora una questione sintetizzata dal Guardian: “Si dice che nessuno, in punto di morte, rimpianga di non avere passato più tempo in ufficio. Ma se preferiamo trascorrere il tempo con i nostri cari che a guadagnare soldi, perché non lo facciamo e basta?”.

Come spiegava un articolo di Forbes del 2019, non tutti gli esperimenti per la riduzione dell’orario hanno avuto successo. Tower Paddle Boards, azienda californiana di tavole per lo stand up paddle in cui ha investito il miliardario Mark Cuban, ha sperimentato turni da cinque ore. La prova “è stata un successo all’inizio, finché gli impiegati hanno iniziato a godersi un po’ troppo il tempo libero” e l’azienda ha perso “la sua cultura da startup”. Digital Enabler, società tedesca di siti, app e piattaforme per e-commerce, ha adottato lo stesso modello e, per evitare distrazioni, ha vietato l’uso di telefoni e social al lavoro. I dipendenti hanno lamentato “la pressione di dover svolgere le stesse mansioni in meno tempo” e il disagio per la mancanza di contatti con parenti e amici. La città di Göteborg ha sperimentato le sei ore al giorno per i dipendenti di una residenza per anziani. Il regime ha avuto effetti positivi sui dipendenti, ma ha comportato 17 assunzioni per garantire la continuità di servizio, con un costo di 1,3 milioni di euro.

Un’analisi del sito della Australian broadcasting corporation, tv pubblica australiana, invita inoltre a prendere con cautela i risultati degli esperimenti di successo. La ragione è il cosiddetto ‘effetto Hawthorne’, che prende il nome dalla fabbrica dell’Illinois in cui fu osservato. “La consapevolezza di essere protagonisti di un esperimento”, si legge nell’articolo, “influenza il comportamento dei lavoratori e accresce i livelli di produttività”. Inoltre, i test coinvolgono in genere volontari, che sono “motivati a far funzionare il progetto”.

Jack Ma
Jack Ma, fondatore di Alibaba, prevede in futuro “settimane lavorative di 12 ore”. Ma per il momento è un alfiere del modello 996: dalle 9 di mattina alle 9 di sera, per sei giorni a settimana. (Foto Getty)

Le voci contrarie rimangono quindi molte. Lo scorso anno, molte testate hanno scritto che la premier finlandese, Sanna Marin, avrebbe proposto una settimana lavorativa di 24 ore. Prima che la notizia venisse smentita, l’economista Carlo Cottarelli aveva scritto su Twitter: “La premier finlandese propone di lavorare 24 ore a parità di stipendio, perché stare a casa aumenta la produttività. Mah! Di solito la produttività dipende da tecnologia, investimenti, ecc…”. Nel 2019 una ricerca del Centre for policy studies, gruppo di pressione conservatore britannico, ha calcolato che il passaggio alla settimana di 32 ore auspicato dai laburisti sarebbe costato al governo almeno 17 miliardi di sterline all’anno. E restano da convincere imprenditori come Jack Ma, fondatore di Alibaba, che per il futuro prevede “settimane lavorative di 12 ore”, ma per il momento è un alfiere del modello 996: dalle 9 di mattina alle 9 di sera, per sei giorni a settimana.

Lo scorso anno Forbes evidenziava anche che ridurre l’orario di lavoro sarebbe più agevole per le grandi aziende che per le piccole. “Una società con centinaia di migliaia di dipendenti ha le risorse per coprire l’assenza dall’ufficio di parte del personale. In aziende più piccole, in cui i dipendenti sono già sovraccarichi, potrebbero non restare abbastanza persone per svolgere i compiti indispensabili”.

Secondo altri, però, il vero ostacolo è culturale. Per l’antropologo James Suzman, a condurre all’eccesso di lavoro “non è il pericolo della ristrettezza o della povertà, ma l’ambizione”. Mentre The Atlantic ha scritto che per le élite “il lavoro è diventato un’identità religiosa”, che “promette un senso di trascendenza e comunità”. Qualcosa di simile a ciò che Bertrand Russell affermava già nel 1935 nel suo Elogio dell’ozio. Russell era convinto che, “con un minimo di organizzazione”, quattro ore di lavoro sarebbero state sufficienti a produrre abbastanza per tutti. “Credo che nel mondo si lavori troppo”, scriveva, “e che questo enorme male sia causato dall’idea che il lavoro sia virtuoso”. Poi aggiungeva: “L’etica del lavoro è l’etica degli schiavi, e il mondo moderno non ha alcun bisogno di schiavi”. 

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