Maurizio Gigola
Cultura

Un museo virtuale del vino, il documentario su Gualtiero Marchesi e la vita in Silicon Valley. Tutti i progetti del regista Maurizio Gigola

“Tutti gli uomini per natura tendono al sapere”, sottolineava Aristotele nel primo libro della Metafisica. Anche io tendo all’esplorazione e alla sperimentazione: sono affascinato dalla storia e dal passato, ma anche dal presente e dall’innovazione, dalla capacità della tecnologia di trovare soluzioni”, spiega Maurizio Gigola.

Regista e produttore, consulente e imprenditore, sa miscelare la creatività al razionalismo e alla praticità, qualità che lo hanno avvicinato ai guru della Silicon Valley. Italiano di nascita, si considera un cittadino del mondo con una visione globale e per questo ha deciso di vivere tra San Francisco e l’Italia. “Amo il mio Paese d’origine e mi piace promuoverlo a livello internazionale, influendo anche sull’economia oltre che sulle arti con delle scelte nuove e visionarie”, sottolinea. Tra i suoi lavori più importanti si annoverano i documentari Gualtiero Marchesi – The Great Italian (2018) e Harvest (2020), che promuove il territorio del Friuli-Venezia Giulia e i suoi vini, e che sarà lanciato in un tour italiano e americano a partire dai primi mesi del 2022 insieme a un libro e a una piattaforma digitale. Perché Harvest, come ci racconta quando lo incontriamo per un caffè all’hotel Marriott Fisherman’s Wharf, a San Francisco, non è solo un prodotto cinematografico, ma mira a influire e cambiare il modo di fare turismo e l’economia servendosi perfino dell’AI.

Harvest sembra essere solo la prima puntata di un vasto progetto che comprende docu-film e alta tecnologia multimediale, alla scoperta di tutte le regioni d’Italia…

Ho definito il progetto globale Wine Odyssey, perché mi sento come una specie di Ulisse in viaggio per diversi territori, alla scoperta di culture, tradizioni, gastronomia e vini. Ogni documentario vuole trasmettere l’amore per il territorio, diffondere la passione per i prodotti locali in tutto il mondo. Harvest è nato da una collaborazione con Promoturismo FVG e dirigenti Diana Candusso e Lucio Gomiero. In un secondo momento, con il sindaco di Aquileia, Emanuele Zorino, abbiamo sviluppato un progetto innovativo: Aquileia metaluogo. La produzione culturale è stata spesso considerata una voce di costo per il territorio e, invece, per me deve diventare una voce di profitto che metta insieme il patrimonio artistico e culturale, storico e archeologico, gastronomico ed eno-gastronomico, e che venga messa a disposizione attraverso canali digitali e virtuali internazionali. L’idea, oltre al progetto già realizzato, sarà integrata con una startup tra Aquileia e San Francisco e sviluppata con la tecnologia della Silicon Valley attraverso tre poli: OVR, partner AI, che ha sede a Udine; Mind the Bridge, azienda di consulenza innovativa a San Francisco; e la regione del Friuli-Venezia Giulia con Aquileia. Lo scopo è fondare una nuova economia che si basi sul territorio. Lo stesso modello voglio applicarlo poi alla Liguria, dove sto realizzando un documentario simile e alle altre regioni.

Basilica di Aquileia
Basilica di Aquileia

Perché partire proprio da Aquileia?

Aquileia rappresenta il baricentro storico del racconto e il documentario rispecchia la matrice identitaria del Friuli-Venezia Giulia. Aquileia è un hub simbolico. In passato era un grande centro culturale ed economico, dove le materie prime del Mediterraneo, con ingredienti come cereali e olio d’oliva transitarono per raggiungere i popoli germanici del centro Europa. La tradizione mediterranea incontrò la cultura dell’allevamento e dello sfruttamento degli animali a fini nutrizionali e nacque una matrice identitaria: quella agropastorale. La voglia di scoprire e di essere imprenditori di allora è la stessa che distingue oggi le persone del Friuli-Venezia Giulia, da Trieste, alla Carnia fino al Collio.

Sta inoltre lavorando a un museo virtuale del vino…

Anche il vino ha radici profonde che risalgono all’antichità e riflette le persone che lo producono. Il nuovo museo del vino che abbiamo in programma avrà sia un format fisico sia offline. Virtualmente, ci sarà una stanza con un sommelier avatar, campione del mondo nel settore vitivinicolo, e i visitatori diventeranno loro stessi degli avatar e potranno seguire addirittura lezioni. Il sommelier avatar li accompagnerà alla scoperta, per esempio, dei vini bianchi del Collio, come alla visione di video, notizie e informazioni. Al tempo stesso il museo sarà accessibile online in digitale da tutto il mondo. Nei documentari per spiegare meglio concetti e idee, ho deciso di essere io il narratore, intervistando diversi interlocutori: è una formula che aveva funzionato benissimo con il progetto legato a Gualtiero Marchesi e ho voluto riprenderla.

Maurizio Gigola con Gualtiero Marchesi
Maurizio Gigola con Gualtiero Marchesi

Come è iniziata la collaborazione con Gualtiero Marchesi?

Dopo anni di lavoro come consulente e dirigente corporate, volevo tornare alla mia passione originaria: il cinema. Decisi di cominciare da uno dei più grandi maestri ovvero Gualtiero Marchesi, che allora aveva il ristorante Il Marchesino. Fu un bell’incontro, lui si entusiasmò subito e dedicai ben due anni della mia vita al suo documentario, girando il mondo e parlando con i migliori chef come Massimo Bottura, Paul Bocuse, Ernst Knam, Alain Ducasse Carlo Cracco, Oldani, Berton e molti altri. Ma quello che mi ammaliava di più di Gualtiero era come lui fosse un artista così incredibile da non temere nemmeno le critiche. Paragonava la sua passione per la gastronomia alla musica. Aveva una visione razionale condita da tanta intelligenza emotiva: per lui bisognava rispettare gli ingredienti, amarli e amare chi li avrebbe mangiati. Gualtiero aveva una visione puramente creativa: la musica, che lo aveva segnato fin da bambino quando aveva studiato pianoforte, la pittura e l’arte. Gualtiero ha insegnato agli americani ad amare l’Italia e l’arte del bon vivre.

Come è arrivato invece a seguire la professione di regista?

Ho seguito un percorso variegato. Da giovanissimo frequentai i teatri di posa milanesi. Entrai poi nel mondo delle radio private: a sedici anni ero a Radio Montestella e mi occupavo di musica, poi lavorai come assistente in una casa di produzione… Alla fine però andai in America e mi diplomai all’Academy of Art University a San Francisco. L’esperienza americana mi servì per ottenere un’ottima posizione come communications strategy director del PA Consulting Group. In seguito diventai ceo di LearningLab, DW Italia. Lavoravo tra Italia, Stati Uniti ed Inghilterra ma dopo la crisi finanziaria di Merryl Lynch la consulenza e la formazione non erano più produttive come prima e decisi di tornare al cinema, dove intravedevo più possibilità.

Cosa la spinse a questa decisione?

Amo l’Italia e la considero il mio Paese ma ho un legame profondo con gli Stati Uniti. Qui esiste la libertà, non quella retorica ma la libertà vera. In America si possono ancora realizzare più progetti rispetto all’Europa. In Silicon Valley, per esempio, posso andare a un meeting in scarpe da ginnastica e jeans. Non conta come ti presenti, ma le idee che hai. In America realizzai un progetto digitale sulla gastronomia italiana per agenzie pubblicitarie e da lì nacque il mio interesse per questo settore… La mia passione per il cibo divenne una forma di espressione per la cultura antropologica.

Che progetti sta sviluppando al momento?

Sto avviando la produzione di un nuovo documentario su Leroy Hood basato sui suoi studi sul DNA, su come prevenire le malattie in futuro e sulla longevità. I suoi studi cambieranno il concetto della medicina e della salute in tutto il mondo.

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