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Dai cargo ai treni elettrici: la corsa dell’industria per rendere sostenibili i trasporti

Articolo tratto dal numero di marzo 2022 di Forbes Italia. Abbonati!

Anche Joe Biden si è congratulato. Del resto è lui che ha riportato gli Stati Uniti nel solco degli accordi di Parigi, il grande piano di lotta al riscaldamento della Terra. I suoi complimenti erano per una vecchia gloria della rivoluzione industriale, la Union Pacific Railroad, fondata nel 1860, tra le prime società a collegare gli Usa con le ferrovie. Oggi l’azienda ringiovanisce e si lancia nel futuro. Ha comprato infatti 20 locomotive merci elettriche, al posto degli attempati diesel che spingono i treni da più di un secolo. La somma investita è considerevole: 100 milioni di dollari. I nuovi treni a batteria (prodotti da due società: Wabtec e Progress Rail, una controllata di Caterpillar) viaggeranno tra la California e il Nebraska. Consegna completa entro la fine del 2024.

Anche negli Usa l’industria dei trasporti ha un discreto grattacapo. Non c’è solo il problema del traffico nelle strade e del gas serra di camion e furgoni, che andrebbe fortemente ridotto. Il Covid ha lasciato anche una gran penuria di conducenti, che per varie ragioni non sono tornati al lavoro (la cosiddetta “great resignation”). Come d’altronde succede in Gran Bretagna, dove ne mancano all’appello ben 100mila, secondo stime del settore. Inoltre i binari ferroviari potrebbero far risparmiare parecchia energia, visto che negli Stati Uniti c’è una rete di 225mila chilometri, che attraversa il Paese in lungo e largo e ha un vantaggio notevole rispetto alle autostrade.

I vagoni trasportano infatti carichi molto più pesanti di quanto faccia un camion: il limite legale di un semi truck è circa 36mila chili. I treni, poi, richiedono meno potenza per continuare a muoversi. Una startup di Los Angeles – Parallel Systems, fondata da un trio di ex ingegneri di SpaceX – ha appena raccolto 50 milioni di dollari per sviluppare treni elettrici adatti al trasporto merci. L’obiettivo è togliere dalla strada un po’ di camion. A quanto pare, sono sufficienti batterie più piccole: Parallel dice che uno dei suoi treni copre fino a 500 miglia, e gli basta un quarto della carica con cui un Semi truck Tesla percorre la stessa distanza.

La rinascita del treno

Investimenti come quelli di Union Pacific Railroad e Parallel Systems sembrano far parte di una rinascita mondiale nell’uso della ferrovia per la logistica, cioè di treni per spostare merci come container marittimi, sostituendo i camion e persino, su alcune rotte, le navi. I treni potrebbero colmare il divario tra il trasporto aereo, che è caro e produce tanta CO2, e quello su nave, più economico ma lento. “È un mezzo di trasporto più pulito ed efficiente”, spiega John Smith, amministratore delegato di Gb Railfreight, il terzo operatore di trasporto merci su rotaia del Regno Unito. Oggi, afferma Smith, tre dei suoi maggiori clienti sono aziende che un tempo usavano solo camion.

Si inserisce in questo trend, ad esempio, l’inglese Orion High Speed Logistics, con una sua flotta di treni elettrici riadattati alla logistica. Dentro i vagoni, al posto dei sedili, ci sono pavimenti di metallo e attrezzature che contengono gabbie su ruote, pieni di scorte per i rivenditori. All’arrivo in stazione le gabbie vengono trainate da motorini elettrici nel centro di Londra. Orion vuole strappare nuove fette di mercato cavalcando la decarbonizzazione. Ma tutta la grande logistica si sta interrogando su come ridurre l’impatto ambientale. I clienti vedono solo l’ultimo metro di un viaggio lunghissimo, quando il pacco viene consegnato sull’uscio di casa. La catena di approvvigionamento deve restare nell’ombra. Se esce allo scoperto, cioè se diventa tema di dibattito, vuol dire che funziona male.

La pandemia l’ha sottoposta a uno stress incredibile. Fiaccata dai lockdown, da lavoratori ammalati o in quarantena, ma soprattutto messa in crisi dalla domanda nel mondo ricco, specialmente in America, dove l’appetito per i beni di consumo è stato vorace. Ovvio, stando a casa, le persone hanno speso di più in gadget elettronici che in servizi come cene al ristorante. Per parte loro, le tariffe e i tempi di trasporto sono aumentati vertiginosamente. Sappiamo bene che gran parte di ciò che acquista il mondo sviluppato è prodotto a migliaia di chilometri di distanza, trasportato su navi e aerei, dislocato in magazzini e centri logistici a bordo di camion e treni, prima di raggiungere la porta del cliente. Ogni fase di questo intricato processo ha un impatto sul clima.

Che cosa fanno le multinazionali

Secondo dati dell’International Transport Forum, organizzazione che fa parte dell’Ocse, il trasporto merci legato al commercio è causa del 7% delle emissioni globali di anidride carbonica. E visto che questi movimenti cresceranno ancora – entro il 2050 saranno 2,5 volte il livello del 2015 – i gas prodotti aumenteranno di conseguenza (+20% nel 2050). Anche tenendo conto delle attuali politiche di decarbonizzazione, che comunque sono insufficienti. Continuare a inquinare per inerzia, dunque, non è un’opzione accettabile. Tra i possibili rimedi vi sono maggiori efficienze per ridurre le scorte e il numero di consegne, nonché il passaggio a carburanti e forme d’energia più sostenibili.

Le grandi aziende si sono prodotte in un turbinio di annunci e promesse. C’è il gigante della logistica Maersk, che punta alla neutralità climatica entro 2050 e già il prossimo anno calerà in acqua la sua prima nave a zero emissioni nette. Nel frattempo, alcuni degli impegni più ambiziosi sull’uso di carburanti aeronautici sostenibili vengono proprio dal settore aereo del trasporto merci (anche se gran parte della CO2 nell’aviazione è prodotta da voli commerciali con a bordo passeggeri).

Molte di queste spedizioni le alimenta Amazon. Agli occhi del mondo, la regina dell’e-commerce vorrebbe essere giudicata parte della soluzione, non del problema. E così ha fissato due scadenze: decarbonizzare entro il 2030 metà del trasporto merci e il 100% dieci anni dopo. Jeff Bezos ha anche aperto un fondo venture capital, con finanziamento iniziale di due miliardi di dollari, per investimenti in tecnologia rivolta alla transizione verde. Tra le società finanziate, Blade Technologies, una startup che costruisce piccoli aerei elettrici per le consegne di pacchi, un produttore di carburante sostenibile, un’altra società che innova nei mezzi elettrici, e così via.

A questo si aggiungono Ikea, Unilever e Michelin. Le tre aziende hanno annunciato che entro il 2040 faranno viaggiare i loro prodotti solo a bordo di navi a zero emissioni nette di Co2. In realtà il primo cargo completamente elettrico, opera di Vard, una controllata di Fincantieri, già naviga tra i fiordi della Norvegia. Il nome della nave container è Yara Birkeland, 80 metri, consegnata a un’azienda di fertilizzanti con sede a Oslo. Lavorando a pieno regime, permetterà di risparmiare 40mila viaggi di camion diesel all’anno. E fin qui tutto bene. Ora passiamo alle note un pochino più amare.

Il problema dei costi

Se è vero che bisogna pulire le catene di approvvigionamento, pianificate in modo così intricato, è anche vero che bisogna farlo senza aumentare troppo i costi per i consumatori finali, ormai abituati a spedizioni economiche e rapide. Gli analisti, per ora, fanno notare che le nuove tecnologie tendono a essere più care di quelle vecchie, ad alta intensità di Co2. Facciamo l’esempio degli aerei: i carburanti sostenibili per i cargo da trasporto merci sono fino a cinque volte più costosi di quelli tradizionali. Ma se allarghiamo la prospettiva, emerge un altro problema. E cioè che oltre la metà delle emissioni di CO2 prodotte dai trasporti non dipendono dalla logistica, ma dallo spostamento di passeggeri, che viaggiano sugli aeroplani, ma soprattutto su macchine, moto, autobus e taxi. I trasporti generano circa un quarto del totale dei gas serra nel mondo, e i veicoli stradali oltre il 70% di questa quota. Ma i sei milioni di pionieri che quest’anno opteranno per macchine elettriche rappresentano ancora solo l’8% di tutti gli acquirenti di auto (in Europa, invece, la quota è circa il 20%, stando a dati Acea).

Questo popolo cresce. Condivide filmati virali sui social, si esalta per l’accelerazione e la tenuta di strada delle Tesla. Secondo Oliver Zipse, presidente e ceo di Acea (Associazione europea di costruttori auto), le vendite di auto elettriche sono aumentate di dieci volte tra il 2017 e il 2018, e hanno registrato un +9% nel 2021. “È chiaramente un buona notizia”, commenta Zipse. I dati ci dicono che, se vogliamo avere qualche possibilità di raggiungere la neutralità climatica nel 2050, le auto elettriche devono prendere il sopravvento e devono farlo in fretta. Fit for 55 non è un corso di aerobica, ma il nome del programma europeo a tappe forzate per la transizione energetica. Dal 2035 si potranno vendere solo auto a emissioni zero – questa la proposta della Commissione Ue. Il resto del mondo sembra avere una tabella di marcia meno intensa, ma comunque parecchio ambiziosa. Negli Usa il presidente Biden vuole che le auto elettriche raggiungano una quota del 50% delle vendite entro il 2030.

78 miliardi all’anno per le colonnine

Molti investitori agiscono sulla base del presupposto che tutto ciò avverrà senza intoppi, come l’accelerazione di una Tesla. In Borsa la fiducia resta solida, nonostante qualche scivolone. I produttori di batterie elettriche sono in pieno boom. Eppure, oltre il glamour levigato di una model S, ecco che appare un ruvido collo di bottiglia. I governi cominciano a rendersene conto. È il principale ostacolo alla transizione, oltre al prezzo ancora notevole delle macchine. In poche parole: come verranno ricaricate tutte le auto elettriche? I paesi membri, secondo il piano dell’Unione europea, dovranno sistemare centraline di ricarica ogni 60 chilometri nel caso di auto elettriche e ogni 150 chilometri nel caso di auto a idrogeno.

Un piano che rischia di trasformarsi in miraggio. Zipse ha spiegato che si sta andando parecchio a rilento nelle infrastrutture di ricarica. Il ritmo di crescita non sta dietro alla domanda dei consumatori. Sempre secondo Zipse, negli ultimi cinque anni le vendite di auto elettriche sono cresciute quattro volte più velocemente rispetto all’accumulo di punti di ricarica. Una Volkswagen ID.3 è divertente e scattante nel traffico cittadino. Poi di notte la si può ricaricare in modo facile ed economico nel garage di casa o nei punti dedicati lungo i marciapiedi (se sono nei paraggi). È ideale per brevi tragitti, ma farci un viaggio è tutta un’altra storia. Il percorso va calcolato con precisione militaresca, perché i servizi di ricarica sono frammentati, a volte difettosi, lenti. C’è il serio rischio di ritrovarsi senza energia.

L’industria dell’auto è ben consapevole delle difficoltà. Quest’estate Herbert Diess, il boss di Volkswagen, si è lamentato su LinkedIn che le sue vacanze in montagna sono state un mezzo disastro. Se l’è presa con Ionity, una rete di ricarica europea (in cui tra l’altro Vw ha investito), perché forniva troppi pochi punti sul passo del Brennero tra Austria e Italia. Il manager si è molto risentito anche per l’accoglienza scadente. “Niente bagno, niente caffè, punti di ricarica rotti. Triste. Di certo non un’esperienza premium!”. In questo momento nel mondo ci sono circa un milione e 300mila caricatori pubblici. Un numero che non può soddisfare le richieste di una flotta che si vorrebbe in rapida espansione. Se la proprietà di veicoli elettrici deve allargarsi a famiglie meno ricche, a persone che vivono in appartamenti senza lo spazio per installare un caricatore, allora una rete pubblica diventa vitale.

Secondo una stima dell’Agenzia internazionale per l’energia, entro la fine di questo decennio saranno necessari 40 milioni di punti di ricarica pubblici, che richiederanno un investimento annuale di 78 miliardi di euro l’anno con l’avvicinarsi del 2030. Punti di ricarica che a loro volta dovrebbero essere alimentati da rinnovabili, non da fonti fossili. Le grandi società dell’auto, i governi, e anche i giganti dell’energia promettono di investire enormi quantità di denaro. Ma Boston Consulting Group crede che il risultato sarà al di sotto della sufficienza. La multinazionale di consulenze strategiche prevede che America, Europa e Cina – dove è concentrata la maggior parte dei veicoli elettrici nel mondo – totalizzeranno insieme solo 6 milioni e 500mila caricatori pubblici entro il 2030. Alle stazioni di servizio bisognerà mettersi in fila e saper aspettare. 

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