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SpaceEconomy

Quando il traffico è spaziale: tutti i pericoli di un’orbita sempre più affollata

Articolo tratto dal numero di settembre 2022 di Forbes Italia. Abbonati!

La space economy cresce a ritmo frenetico. Secondo un rilievo dello Space Economy Evolution Lab di Sda Bocconi, nel 2020 ha mosso 447 miliardi di dollari a livello globale. L’entrata in gioco dei privati ha rivoluzionato l’accesso allo spazio, un settore tradizionalmente gestito dalle agenzie spaziali. Grazie alla diminuzione dei costi di lancio, un numero crescente di aziende può pensare di mettere in orbita i propri satelliti per offrire ai clienti una scelta sempre più ampia di servizi. Su tutti troneggia l’uomo più ricco del mondo, Elon Musk, con il suo progetto Starlink, che prevede la messa in orbita di 12mila satelliti (ai quali se ne potrebbero aggiungere altri 30mila) per fornire il servizio di internet planetario. Ma Starlink non sarà senza concorrenza. La multinazionale OneWeb sta costruendo la sua costellazione, che sarà formata da meno satelliti posti su orbite più alte, e il patron di Amazon Jeff Bezos si prepara a lanciare i primi due satelliti di prova della sua costellazione Kuiper.

Questa voglia di costellazioni ha creato una vera frenesia di lancio, alimentando un mercato che non è mai stato così florido. Chi, pur avendo un contratto già firmato, vede sfumare le possibilità di accedere allo spazio a causa della crisi internazionale che ha messo off-limits i vettori russi fatica a trovare un passaggio. I satelliti OneWeb verranno lanciati dai Falcon9 di Elon Musk, a dimostrazione che business is business. I problemi internazionali hanno congelato il programma marziano europeo, ma stanno anche creando problemi per i lanci delle missioni scientifiche che prevedevano di usare gli affidabili ed economici Soyuz russi. Coloro che lavorano sulla missione dell’Agenzia spaziale europea, Euclid, originariamente prevista per un lancio con Soyuz, non sanno più a che porta bussare. Speravano di utilizzare un Ariane 6, francese, ma, dopo lo shopping compulsivo di Bezos, i lanci con vettori europei sono sold-out, anche perché i provider di internet orbitale non sono gli unici a voler andare nello spazio.

I cubesat

Sono molte le compagnie che forniscono immagini della Terra finalizzate al controllo del territorio, al monitoraggio del traffico e a quello dello stato dei fiumi e dei ghiacciai, all’agricoltura di precisione e alla miriade di servizi che diamo per scontati senza chiederci da dove vengano. Sono i satelliti a indicare alle app che utilizziamo per spostarci la strada meno trafficata. Apparati di dimensioni che vanno dai cubesat di pochi chilogrammi ai grandi osservatori, pesanti tonnellate.

Masse diverse significano costi radicalmente differenti, ma, curiosamente, le prestazioni dei satelliti più piccoli possono essere tutt’altro che trascurabili. In effetti, i cubesat sono nati come palestra per formare le nuove generazioni di ingegneri aerospaziali e hanno una storia relativamente breve. Si chiamano così perché l’unità di misura, U, è un cubo di 10 centimetri di lato. Si parla quindi di satelliti da 2, 3, 4 o 6 U, a seconda dell’ingombro. L’idea è sempre stata quella di progettare una missione con una finalità ben precisa e dal costo molto contenuto, che utilizzi strumentazione fatta da componenti standard facilmente reperibili sul mercato. All’inizio, i cubesat non erano parsi interessanti alle agenzie spaziali, ma i privati hanno subodorato il loro potenziale soprattutto nel campo delle osservazioni della Terra, perché una costellazione di cubesat, posizionata in modo giudizioso, può fornire una continua copertura del Pianeta, a differenza dei grandi satelliti che hanno un tempo di ‘rivisitazione’ di diversi giorni o settimane.

Uno stormo di 190 colombe

Planet Labs, per esempio, ha uno stormo di 190 ‘colombe’ di 3U, che producono immagini con risoluzione di qualche metro per diverse centinaia di clienti. Anche gli scienziati si sono resi conto delle potenzialità dei cubesat, che possono essere utilizzati per gli scopi più vari: dallo studio dell’attività solare al monitoraggio delle sorgenti X variabili, dalla caratterizzazione dell’ambiente circumterrestre alla mappatura delle migrazioni degli animali. Il loro utilizzo non si limita alle orbite basse: Capstone, la prima missione del programma Artemis per il ritorno alla Luna della Nasa, è poco più di un cubesat, mentre Marco 1 e 2 sono già arrivati a Marte e l’italiano LICIAcube sta volando, con la missione Dart, verso l’asteroide doppio Didymos. Ha lo scopo di immortalare la deviazione del piccolo Dimorphos.  

Non è quindi un caso che ora anche l’Agenzia spaziale europea e la Nasa abbiano un programma dedicato ai cubesat, che hanno il pregio di costare poco, essere veloci da realizzare e relativamente facili da mettere in orbita. Strumenti di questo tipo possono essere lanciati a gruppi, come carico aggiuntivo quando decollano strumenti più grandi. È successo anche il 13 luglio, nella missione inaugurale di Vega C, il nuovo lanciatore europeo, che aveva nell’ogiva sei cubesat disposti intorno al carico principale, il satellite scientifico Lares 2 dell’Agenzia spaziale italiana.

Samantha Cristoforetti e Oleg Artemyev, durante la passeggiata spaziale del 21 luglio, hanno invece rilasciato manualmente dieci cubesat. Visto che i cosmonauti erano già all’esterno, non è stato necessario utilizzare il meccanismo a molla montato sul modulo giapponese Kibo. Semplicemente, li hanno afferrati con l’apposita maniglia a misura di guanto per attività extraveicolare, hanno controllato fossero accesi e li hanno lasciati andare.

Uno spazio affollato

Il successo dei servizi spaziali ha però anche alcuni risvolti negativi, dei quali ci dovremmo preoccupare prima che la situazione vada fuori controllo: lo spazio sta diventando affollato e ci si preoccupa sempre di più della sostenibilità dell’utilizzo delle orbite circumterrestri. Anche se a prima vista verrebbe da pensare che lo spazio sia talmente grande da non avere problemi di sovraffollamento, la realtà è opposta: le orbite più interessanti dal punto di vista commerciale sono quelle geostazionarie, dove operano i grandi satelliti di telecomunicazione, e quelle più vicine alla Terra, tra i 300 e i 600 chilometri di quota, dove si affollano le costellazioni satellitari, i satelliti (civili e militari) di osservazione della Terra, i cubesat di varia natura. Mentre l’utilizzo dell’orbita geostazionaria è regolato da norme precise, per gli oggetti in orbita bassa non ci sono regole internazionali e la crescita è così rapida che si teme una situazione di ingorgo orbitale, con avvicinamenti sempre più frequenti tra gli apparati che rischiano scontri sia fra loro, sia con tutta la ferraglia, grande e piccola, mandata in orbita negli ultimi 60 anni.

Si tratta di decine di migliaia di oggetti più grandi di qualche centimetro, che vengono seguiti dallo Space surveillance network (Ssn) del dipartimento delle Difesa americano. È il Departement of defense a fornire allerte in caso di avvicinamenti pericolosi. Il monitoraggio continuo, oltre a riconoscere ciascun oggetto, rileva se in orbita è successo qualcosa che ha fatto improvvisamente aumentare il numero di detriti. Così sappiamo, ovviamente a posteriori, quando vengono condotti i test militari noti come Da-Asat (per Direct Ascent Anti-Satellite), durante i quali un missile lanciato da terra distrugge un satellite bersaglio, producendo una nube di detriti che continua a muoversi seguendo l’orbita del satellite dal quale proviene. Negli anni, queste azioni dimostrative sono state condotte dalla Cina (nel 2007), dagli Stati Uniti (nel 2008), dall’India (nel 2019) e dalla Russia nel novembre del 2021.

Distruzioni spaziali

Quest’ultima distruzione orbitale è avvenuta a un’altezza compatibile con quella della Stazione spaziale internazionale (la Iss) e ha generato un serio stato di allerta a bordo. Mentre lo Us Space Command cercava di tracciare l’orbita dei 1.500 detriti creati, gli occupanti della Iss (astronauti e cosmonauti) sono stati svegliati, hanno dovuto indossare la tuta di volo e imbarcarsi sulle navette Crew-Dragon e Soyuz, attivate per essere pronte a staccarsi in caso di collisione. Dopo qualche ora l’allerta è rientrata, ma la cosa ha creato non poche frizioni tra russi e americani. Alla fine si è capito che nemmeno Roscosmos, l’agenzia spaziale della Federazione, era stata informata del test deciso dal ministero delle Difesa senza tenere in alcuna considerazione l’incolumità dei cosmonauti. E senza contare gli altri occupanti della Iss, o i taikonauti cinesi a bordo della stazione Tiangong.

I Da-Asat non sono azioni offensive in senso bellico, perché i satelliti distrutti sono rottami prodotti dalla stessa nazione che conduce il test, ma il loro effetto è devastante per l’ecosistema orbitale. Basti considerare che, pochi giorni prima del test russo, la Iss aveva dovuto alzare la sua orbita di un paio di chilometri per minimizzare il rischio di collisione con uno dei detriti creati dal test cinese del 2007.

Smaltimento orbitale

È in questo quadro che si inserisce l’annuncio della vicepresidente americana, Kamala Harris, che, parlando alla base della Space Force a Vandenberg, ha annunciato che gli Stati Uniti hanno deciso di sospendere i test anti-satellite per evitare la proliferazione dei detriti, che renderebbero meno fruibili le orbite basse a detrimento delle attività svolte dai satelliti.

Al momento si tratta di una decisione unilaterale, ma la vicepresidente spera che altri seguano l’esempio. L’annuncio è, più che altro, una dichiarazione di principio, dal momento che l’ultimo test americano è del 2008, ma certo rivela la preoccupazione dell’amministrazione statunitense circa il sovraffollamento delle orbite circumterrestri. Questo non significa che gli americani siano decisi a non utilizzare lo spazio per scopi militari. I test anti-satellite possono anche essere condotti utilizzando bersagli virtuali che non producono pericolosi detriti e, magari, passare inosservati. 

Certo, evitare di produrre detriti è un passo nella direzione giusta, così come lo sono le normative che le agenzie si autoimpongono per fare rientrare i satelliti al termine della loro vita orbitale. Purtroppo non si può fare molto su quanto è già in orbita: i progetti di raccolta e smaltimento dei rottami orbitali sarebbero una via da percorrere, se solo si capisse chi si deve accollare i costi della pulizia.

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