Esiste un patrimonio comune che va protetto? Nel dibattito economico il tema è centrale. Il patrimonio di cui si discute è il sistema in cui non solo viviamo ma in cui interagiamo, un sistema che secondo l’Earth System Science, che considera le interazioni e i feedback che avvengono attraverso i flussi di materia ed energia tra i sottosistemi della Terra, è aperto e coinvolge nella sua sopravvivenza la trasformazione di tutti i sistemi tra loro collegati.
Dal platform cooperativism alla rete dei beni comuni
Una visione scientifica olistica che non può non coinvolgere l’economia nel sistema da rigenerare per ridurre i rischi che questo sistema collassi. Lo stesso concetto di azienda è nelle previsioni in rivoluzione profonda e il tipo di partecipazione dei tanti singoli soggetti a una comunità attiva di tutela e incremento del patrimonio o dei patrimoni comuni, ha diverse interpretazioni.
Dal platform cooperativism, alla rete dei beni comuni fino ai Dao (Decentralized Autonomous Organisation), cioè organizzazioni autonome decentralizzate, un modello che conosciamo applicato soprattutto alle criptovalute e che sfrutta la blockchain, ma che nella transizione digitale si prospettano come possibile forma di governance o di strumento partecipativo.
“I sistemi chiusi sono tendenzialmente non-sostenibili perché l’ottimizzazione locale produce inevitabilmente esternalità negative. Evitarlo rispettando vincoli e regole restrittive può temperare gli impatti ambientali e sociali, ma aumenta i costi e rende più difficile la loro sostenibilità economica”, spiega Paolo Zanenga di The Transition Institute e fondatore di Diotima Society.
“In parallelo, lo sviluppo tecnologico riduce sempre più la componente marginale del valore e quindi diventa sempre più difficile per le catene del valore basate su produzione e consumo remunerare sia il lavoro che il capitale. Al contrario di big tech, super-innovatori, super-brand: questi sistemi aperti sono per loro natura locali e globali insieme e sono alla base di una nuova economia emergente, che si avvale dell’impegno e delle iniziative degli stakeholder afferenti al polo gravitazionale da cui scaturisce l’identità e l’attrattività dell’ecosistema”, prosegue Zanenga.
“Al contrario dell’impresa tradizionale, queste nuove meta-imprese (possono essere anche costituite da territori – metaterritori – perché anch’essi costituiscono patrimoni) sono non-deterministe, limitano al massimo le liability perché operano sull’intangibile (conoscenza) e generatrici di innovazione serendipica e a ritorni crescenti, mentre l’innovazione nelle aziende tradizionali è caratterizzata da ritorni decrescenti”.
Le nuove imprese come sistemi aperti
Il ruolo della tecnologia, sempre per Zanenga, è fondamentale per superare le criticità indotte dagli attuali processi di valorizzazione, rivolti a sistemi chiusi e separati tra loro. Conciliare così le performance delle imbarcazioni con l’equilibrio di vita dei cetacei può passare ad esempio per una propulsione diversa dalle eliche: l’incremento di valore del patrimonio naturale diventa anche vantaggio economico.
Secondo questa visione i patrimoni si costruiscono intorno ad attrattori, a pattern che costituiscono poli gravitazionali per sistemi di stakeholder, permettendo così di privilegiare la qualità, costruita sulla capacità di sviluppare e condividere conoscenza, e non il costo. “Le nuove imprese sono sistemi aperti che non si basano su un’organizzazione di tipo aziendale, ma piuttosto su piattaforme, attraverso le quali interagiscono e partecipano tutti i tipi di stakeholder, oltre agli stockholder.”
Alla ricerca di spazi di libertà
Il rischio di un modello simile a quello di altri Paesi con un’idea di democrazia diversa dalla nostra condiziona il discorso sulla relazione pubblico privato. In una transizione digitale considerata inarrestabile, con una previsione da qui a quattro anni dell’introduzione dell’euro digitale e una normativa sempre più stringente sulle monete alternative, ad esempio attraverso l’Albo dei mediatori di criptomonete, si cercano spazi di libertà dalla regolamentazione che abbiano però sempre al centro la cura di interessi comuni a una comunità più o meno ampia.
L’idea di beni pubblici gestiti in maniera piramidale dallo Stato viene considerata da più parti rischiosa in una crisi di fiducia che non considera più l’istituzione un buon garante, oltre alla paura, da parti anche opposte, di possibili forme di governo non democratiche.
Rispetto al collettivismo e alla gratuità dei beni distribuiti secondo un sistema a piramide, le varie sperimentazioni di nuove strategie economiche si basano su cerchie di fiducia, a volte su meccanismi di stakeholdership che condividono un rischio.
Il modello proposto dalla Rete Communia
Se spesso da più parti si parla di ispirazione ai Commons Medievali (tanto che qualcuno paragona le piattaforme di scambio private con il sistema degli Hortus Conclusus e conseguente possibilità di regolamentazione ad hoc degli scambi) è il modello culturale a cui ci si ispira che è spesso differente.
La prima differenza è tra modello anglosassone e quello italiano, ma anche all’interno del secondo i riferimenti possono essere più alla cultura liberista o a quella di stampo mutualistico di radice cattolica e sociale. Il modello proposto dalla Rete Communia è quello di creare un’economia comunitaria attingendo a una tradizione mutualistica già rodata nella cultura italiana, nella quale si definiscano i beni comuni come l’asset class ideale per gli investimenti responsabili.
“È come viene gestito un bene che lo rende “comune” più che la sua titolarità. Se un bene di proprietà pubblica, come un immobile storico, una rete idrica o un servizio sanitario non viene valorizzato e gestito con un modello anche economicamente sostenibile non può essere reso comune; se al contrario un bene di proprietà privata viene gestito con un modello economico generativo, attraverso un’economia per gli stakeholder che sia mutualistica e inclusiva, allora può essere considerato bene comune”, spiega Andrea Rapaccini della rete Communia.
“Tale modello generativo implica l’utilizzo di nuove forme di impresa (imprese sociali, cooperative sociali, imprese benefit, associazioni cittadine per usi civici…), ma soprattutto nuovi rapporti di partnership tra pubblico e privato per la gestione. Ad esempio è molto importante riscrivere le concessioni pubbliche, in modo che gli obiettivi di generazione economica, sociale e ambientale siano indirizzabili, misurabili e sottoposti ad un controllo sociale trasparente”.
“Se a breve termine il tema riguarda la gestione, a medio periodo tale processo di trasformazione può riguardare la proprietà di quei beni. Il punto d’arrivo è l’identificazione normativa di una terza categoria di beni (i beni comuni, appunto), che non possano essere privatizzati e lasciati unicamente alle leggi competitive del mercato, ma che non possano essere nemmeno considerati a esclusivo appannaggio di un sistema pubblico indebitato, burocratico e con scarse capacità di valorizzazione”, continua Rapaccini.
I Dao come strumenti di governance fondamentali
In questo scenario i Dao (Decentralized Autonomous Organisation) sono considerati strumenti di governance fondamentali, sia che vengano utilizzati per la partecipazione dei cittadini sia che rappresentino strumenti generativi di valore istantaneo e non programmato tra i vari stakeholder dei brand che li sostengono.
Per i sostenitori della rete bitcoin qualunque private coin e smart contract alternativo è destinato a fallire perché troppo fragile e soggetto ad abusi. A dimostrazione di questo vengono portati il caso della blockchain Ibm- Maersk e quello delle sorti della sponsorizzazione dell’Inter da parte di Digital Bits.
Il modello Open Source Ecology
In una posizione apparentemente opposta al modello legato a bitcoin, ma che ha come punto di contatto la totale assenza di regolatori, si muoverebbe un certo modello di platform cooperativism, di cui un noto esempio è Open Source Ecology: amato da utenti di stampo libertario generalmente ostili agli aspetti finanziari delle piattaforme.
Questo esempio collaborativo per l’autoproduzione di macchinari agricoli apre alla possibilità di investimenti in bitcoin per finanziare la gestione della piattaforma. A tenere le distanze tra i tanti modelli che vedono i Dao come strumento c’è un’idea diversa di valori fondanti o di riempimento stesso dei concetti astratti rappresentati da parole come libertà, bellezza, inclusione, addirittura pace.
Commodification: da Fairmondo a WeFarm
Se la Commodification, tipica della seconda rivoluzione industriale, è un processo interessato alla creazione di profitti senza il coinvolgimento di tutti gli stakeholder e con una logica estrattiva, la Commonification, considerata da molti ancora utopistica, vede un accesso ai beni comuni senza scopo lucrativo, quindi opposta alla massimizzazione del profitto e soprattutto alla sua distribuzione per remunerare senza limiti il capitale investito.
Fanno parte di un modello relativamente estremo di commonification esempi di platform cooperativism come Fairmondo, piattaforma di e-commerce cooperativa, basata sull’uso di un codice open source, con la partecipazione di utenti che la aggiornano in modo costante.
Altri esempi includono WeFarm, una piattaforma online che mette in contatto gli agricoltori, Seedbox, un sistema di condivisione e creazione sostenibili, e il Co-op Town Marketplace, una piattaforma di vendita dedicata alle comunità cooperativistiche.
Al di là delle diverse retoriche, come ogni interpretazione di corretta gestione dei beni comuni dimostrerà di aprirsi alla convivenza con strumenti alternativi ai propri, darà forse conto della reale volontà di inclusione e sostegno alla diversità.
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