Vucic Serbia
Strategia

Relazioni pericolose: come i legami con Russia e Cina allontanano la Serbia dall’Unione europea

“So che l’Ue è la nostra strada, non ce ne sono altre”. Questo dichiarava a Bloomberg il presidente serbo Aleksandar Vucic, nel gennaio 2023, sul futuro del suo paese e sull’integrazione europea. A oltre un anno di distanza Vucic, però, non ha affatto avvicinato Belgrado a Bruxelles. Anzi. Prova ne è la tiepida reazione di tutti i leader europei, a eccezione di Viktor Orban, alla sua rielezione a dicembre, caratterizzata, secondo le opposizioni e i commissari dell’Osce presenti nel paese, da irregolarità, brogli e violenze sugli elettori da parte del partito di maggioranza.

Le relazioni pericolose con Russia e Cina

La storica vicinanza con la Russia è un altro dei temi divisivi con Bruxelles. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel suo ultimo viaggio nei Balcani ha rimarcato: “Vogliamo che facciate i prossimi passi per avvicinarvi a noi anche in politica estera”. Il riferimento alla vicinanza con Putin non è casuale. La Serbia è l’unico paese europeo a non aver aderito alle sanzioni economiche contro Mosca.

Preoccupano anche gli stretti legami con la Cina. L’accordo commerciale siglato a ottobre 2023 con Pechino viola le regole per l’adesione all’Ue. La Serbia è per la Cina, che l’ha fatta entrare nel 2019 nella Nuova Via della Seta, un avamposto fondamentale per i mercati europei e un corridoio di passaggio verso il porto del Pireo, dal 2016 in concessione proprio a Pechino. La Cina negli ultimi anni ha finanziato tramite la Exim (Export-Import) Bank of China numerose infrastrutture strategiche per il collegamento della Serbia con il Pireo e con l’Adriatico. Per Belgrado, Pechino è un alleato necessario nei consessi internazionali per la difesa della sua integrità territoriale e della sovranità sul Kosovo, oltre a essere diventato fornitore di dispositivi militari. Ha fatto scalpore l’arrivo, ad aprile 2022, di sei aerei cargo militari cinesi all’aeroporto di Belgrado con dispositivi anti-aereo Hq-22.

Vucic, quindi, da una parte non vuole abbandonare lo storico legame con Russia e Cina, dall’altra vuole continuare il processo di integrazione europea, perché la Serbia non può fare a meno di Bruxelles. L’interscambio commerciale con l’Ue rappresenta il 54% del totale del paese e l’export nei paesi dell’Unione è passato da 3,2 miliardi di euro nel 2009 a 18 miliardi nel 2022. Gli investimenti diretti stranieri in Serbia, poi, per il 59% arrivano da paesi Ue.

La tensione Serbia-Kosovo

Il principale ostacolo all’adesione di Belgrado all’Ue è la questione del Kosovo. Bruxelles e Washington mettono come condicio sine qua non per potersi integrare nell’alveo Occidentale la normalizzazione dei rapporti con Pristina. La tensione all’interno di quella che Belgrado ritiene ancora una sua provincia autonoma sembrava essersi attenuata dopo gli accordi di Ohrid del marzo 2023. In quell’occasione Vucic e il suo omologo kosovaro Kurti, insieme all’alto rappresentante Ue Borrell, si erano accordati su 11 punti, senza firmarli, per una maggiore collaborazione e un buon vicinato tra i due paesi. Punto fondamentale era la creazione in Kosovo dell’Associazione dei Comuni Serbi. La parte nord del Kosovo, infatti, è abitata in prevalenza da cittadini di etnia serba e religione cristiana ortodossa. Queste quattro municipalità furono assegnate arbitrariamente alla provincia jugoslava del Kosovo nel secondo dopoguerra da Petar Stambolic, ex premier jugoslalvo, per accrescere la presenza di serbi nell’area e il suo consenso elettorale. Pristina oggi non vuole rinunciare a quel territorio, seppur abitato da serbo-kosovari, per la presenza della miniera di Trepca, in cui si estraggono zinco, piombo e argento.

A fine maggio la tensione è sfociata in violenti scontri che hanno portato al ferimento di 41 soldati, tra cui 14 italiani, del contigente Nato in Kosovo, il Kfor (Kosovo Force). Gli scontri sono scoppiati a seguito di elezioni, boicottate dai cittadini di etnia serba, che hanno visto trionfare quattro sindaci di etnia albanese. A settembre, un gruppo di paramilitari serbo-kosovari ha attaccato la polizia per poi barricarsi nel monastero di Banjska, nel nord del Kosovo. Il bilancio è stato di un poliziotto kosovaro e tre paramilitari serbi morti. Pristina ha definito l’episodio un atto di terrorismo ordito dal governo di Belgrado, mentre Vucic ha risposto condannando le ingiustificate uccisioni di “patrioti serbi” e schierando l’esercito al confine.

Una guerra da evitare

La tensione resta altissima. Gli stessi accordi di Ohrid non sono stati rispettati. Il governo Kurti è riluttante nel concedere ai comuni di maggioranza serba la creazione di un’associazione indipendente, temendo la nascita di uno stato nello stato, come avvenuto in Bosnia con la Repubblica Srpska (Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina). Dall’altro lato, Vucic ha affermato – anche di recente, di fronte a von der Leyen – che non riconoscerà mai l’indipendenza del Kosovo, rischiando così di congelare il processo di adesione all’Ue.

L’Unione e gli Usa, però, non possono permettersi, dopo l’Ucraina, un’altra guerra nel cuore dell’Europa. L’Italia stessa deve evitare a tutti i costi che la tensione in Kosovo deflagri. In primis per la vicinanza al nostro Paese, ma anche per i rapporti commerciali floridi con i paesi balcanici (l’Italia è il secondo partner commerciale Ue della Serbia, dopo la Germania). Non da ultimo, anche per la presenza di circa 850 militari italiani nel territorio kosovaro.

Pure la Cina è preoccupata per una destabilizzazione dell’area, perché i suoi interessi commerciali potrebbero essere compromessi. Putin sarebbe l’unico ad avvantaggiarsi in caso di un’escalation tra Serbia e Kosovo, che distoglierebbe l’attenzione e le risorse occidentali dal conflitto ucraino. A più di un secolo dell’uccisione a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, che fece scoppiare la prima guerra mondiale, i Balcani tornano al centro dello scacchiere europeo e globale.  

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