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Giovanni Azzone, presidente di Fondazione Cariplo
Responsibility

Così Fondazione Cariplo traccia la via per il welfare di precisione

Articolo apparso sul numero di maggio 2024 di Forbes Italia. Abbonati!

Quattro miliardi di persone, il 54 % della popolazione mondiale, vive nelle aree urbane. Entro il 2030 se ne aggiungeranno altri due miliardi: la sfida per la sopravvivenza è concentrata nelle città. Le azioni di sostegno sociale non possono prescindere da queste considerazioni. Ma come agire, con quali strategie? “Dobbiamo tener conto che si uniscono due fenomeni: uno è il passaggio dalle zone interne alle città, che produce la crescita dell’urbanizzazione; l’altro è il differente tasso di sviluppo”, dice Giovanni Azzone, nuovo presidente di Fondazione Cariplo. “Ci sono alcune aree, e quindi città, dove questa capacità di attrazione è molto forte. Vi convergono le eccellenze, che diventano un potente fattore di sviluppo per tutti. Altre aree e città accolgono tantissime persone, ma non sono in grado di offrire loro integrazione e opportunità. Il rischio sono le città dai due volti. La sfida che abbiamo di fronte è doppia: attrarre imprese e capitale umano di qualità e contemporaneamente fare in modo che tutti possano essere accolti e integrati. L’obiettivo è mantenere la coesione sociale. Non possiamo avere città che generano disuguaglianze, e dove, allontanandosi dal centro, abbiamo persone che vivono ai margini, non solo fisici, ma anche sociali”.  

Il digitale e l’intelligenza artificiale possono aiutare a gestire questi fenomeni?

Sono strumenti che possono essere di grande aiuto per la gestione di problemi così complessi, che non hanno soluzioni semplici. Innanzitutto possono aiutare ad aumentare l’efficienza nell’uso delle risorse. Oggi non possiamo permetterci alcuno spreco. Le persone hanno bisogno di servizi e le risorse sono limitate. Il digitale consente ottimizzazioni. Due esempi semplici: l’uso e la distribuzione dell’energia e la gestione dei flussi di pendolari. Digitale e intelligenza artificiale potranno aiutarci nella gestione dei servizi nelle città. L’esempio della mobilità chiarisce questi aspetti, perché da un lato tocca la nostra vita, ma ha anche conseguenze generali sull’inquinamento. Pensiamo al passaggio da una forma di pendolarismo forte, quale quella che c’era prima dello smart working e di altre flessibilità che abbiamo acquisito: tutti andavano a lavorare alla stessa ora tutti i giorni, avevamo bisogno di un sistema standardizzato. In un sistema in cui le persone si muovono in modo diverso abbiamo bisogno di trasporti gestiti in modo più flessibile, che rispondano a domande puntuali. La conoscenza dei dati degli spostamenti può aiutare a tradurre questo insieme di esigenze specifiche e a rispondere in modo puntuale.

Ci avviciniamo al concetto di welfare di precisione che lei ha lanciato e che è basato sull’analisi dei dati: è fattibile?

È una cosa già successa in altri campi. Pensiamo alle automobili. La gran parte di noi è cresciuta con modelli di auto standardizzati. Si trattava di un’unica risposta dell’industria a un problema di carattere generale. Se oggi si costruisse un modello unico o quasi per tutti, l’azienda fallirebbe. La personalizzazione dei prodotti è la risposta a esigenze specifiche. Negli ultimi anni le grandi piattaforme digitali hanno dato la possibilità di personalizzare molti prodotti e servizi. Ora pensiamo ai servizi di welfare e assistenza. L’idea è che si possa seguire lo stesso approccio, dando alle persone ciò di cui hanno bisogno. Ogni persona ha la sua specificità, soprattutto se parliamo di servizi in ambito sociale, dalla scuola all’assistenza o al sostegno alla povertà. Analisi dei dati e piattaforme possono aiutarci. Gestiremmo meglio le risorse scarse e probabilmente potremmo dare alle persone ciò di cui hanno bisogno, in modo più puntuale.

Quali sono le priorità, secondo questo approccio?

Bisogni primari come la casa e il cibo e le fragilità, come quelle di chi è diversamente abile. C’è una povertà che nasce dalle condizioni dell’ambiente, con i cambiamenti climatici e l’inquinamento: dobbiamo evitare che le generazioni attuali consumino quello che spetta alle generazioni future. Ci sono due grandi temi: la condizione dei giovani e quella degli anziani. In questa società digitale gli anziani rischiano di rimanere esclusi da servizi essenziali, come un’edicola, la banca, la pubblica amministrazione. Vogliamo ridurre questo gap digitale per aiutare queste persone a essere cittadini a pieno titolo. Sull’altro fronte, i più giovani vivono in una società a informazione ridondante, mentre noi siamo cresciuti in una società a informazione scarsa. Il punto diventa riuscire a fornire ai ragazzi le chiavi di lettura della realtà che consentono di discriminare fra informazioni di qualità e informazioni che distorcono la realtà. Anche questo significa contrastare la povertà digitale.

Un’azione di intelligence, insomma, per agire in maniera mirata.

Nel fare filantropia abbiamo una grande responsabilità. Per decidere come destinare le risorse bisogna conoscere a fondo i problemi. Facciamo spesso incontri con chi opera sul campo e chi governa i nostri territori per capire come vede la situazione, ma contemporaneamente dobbiamo fare attenzione all’analisi dei dati concreti. Oggi se ne hanno molti più di un tempo. Tutto ciò per riuscire a capire, ex ante, quali sono le aree su cui intervenire, ed ex post valutare l’efficacia degli interventi. A quel punto, ciò che ha funzionato può essere scalato.

Lei è stato rettore del Politecnico. Come vanno formate le figure che dovranno gestire questa società complessa?

Occorre distinguere due cose: i contenuti e le modalità di erogazione della formazione. Sui contenuti io vedo un aggiornamento molto forte: praticamente ogni anno nascono nuovi corsi di studio che cercano di rispondere a specifiche richieste. Ci sono anche corsi di studio che si occupano di intelligenza artificiale o che hanno gli obiettivi di sviluppo sostenibile tra gli argomenti importanti. Diversa è invece la capacità di ripensare il modo in cui si formano le persone, tenendo conto che i ragazzi che arrivano oggi all’università sono diversi da quelli che ci venivano 20 anni fa, o anche solo cinque anni fa. Abbiamo bisogno di un’uscita, un output del prodotto formativo che è diverso rispetto al passato, perché chiediamo competenze diverse ai nostri giovani. Allo stesso tempo abbiamo un input che è molto diverso, perché i giovani arrivano in modo diverso all’università rispetto a qualche anno fa. In ingegneria, se cambiano l’output e l’input, anche il processo che sta in mezzo deve cambiare. Su come formare i giovani e appassionarli a questo nuovo mondo c’è ancora lavoro da fare.  

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