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Stefano Rebattoni Ibm Italia
Business

L’intelligenza del fare: come Ibm si prepara alla rivoluzione dell’IA

Articolo tratto dal numero di giugno 2024 di Forbes Italia. Abbonati!

Ibm è in Italia da 94 anni e quindi, tra sei anni, festeggeremo il nostro primo secolo di vita. Qui abbiamo radici solide basate sull’impegno di una corporation che ha investito costantemente in ricerca per sviluppare tecnologie che aiutassero aziende pubbliche e private a essere più efficienti, produttive e sostenibili”. Stefano Rebattoni, amministratore delegato e presidente di Ibm Italia dal 2021, dopo essere stato responsabile, per un anno e mezzo, delle attività commerciali sui clienti enterprise per tutte le industrie del mercato italiano, parla dall’alto della sua esperienza ventennale nel settore tecnologico, con particolare attenzione alle vendite, al marketing e alla fornitura di servizi e soluzioni It. Poi, quando trova il tempo, ricarica le pile facendo sport per “rimettere in ordine i pensieri e mantenere un equilibrio personale”, dice. “Anche se negli ultimi anni, dopo tanto calcio e tennis, mi sono dovuto dedicare a discipline piu compatibili con l’agenda lavorativa, come la corsa e, nella stagione invernale, lo sci, che è diventato una vera passione”. Uno sportivo militante al punto che quando viaggia (l’altra sua passione) nella sua valigia non manca mai un paio di scarpe da running.

Dunque, Rebattoni, quasi un secolo di Ibm in Italia. In 100 anni ne avrete fatte di cose.
Beh, direi proprio di sì. Siamo un’azienda business to business e in tutti questi anni abbiamo supportato le trasformazioni tecnologiche e digitali delle imprese che costituiscono le principali dorsali del nostro Paese. In particolare, nei settori finanziari, banche, assicurazioni e pagamenti, e nel settore pubblico. Molti dei servizi critici nazionali, dai trasporti a poste, elettricità, telecomunicazioni, energia e utilities, poggiano inoltre su tecnologie e competenze di Ibm. Ogni anno investiamo 6 miliardi di dollari in ricerca e sviluppo in una strategia globale che poi vede anche un’implementazione molto locale.

Alla fine, però, è arrivata l’intelligenza artificiale. Cosa è cambiato nel vostro mondo?
Più che di cambiamento si è trattato di un’evoluzione continua. Con Ibm Research investiamo, infatti, nella ricerca per l’intelligenza artificiale dagli anni ’50. Con l’acquisizione di Red Hat, avvenuta nel 2018, Ibm si è riconfigurata su due priorità strategiche: quella del cloud ibrido e l’altra, appunto, dell’intelligenza artificiale. Questi sono i due pilastri attorno a cui Ibm oggi costruisce le sue proposizioni di valore per il mercato. 

Ci spieghi cos’è l’IA, sintetizzando come se dovesse fare un tweet.
L’IA, e in particolare quella generativa, rappresenta oggi un’opportunità imperdibile per governi, sistemi paese, aziende, pubbliche amministrazioni, individui. Cambierà completamente il modo di vivere e di lavorare per tutti. 

In che modo?
Il motivo è semplice: l’IA è una tecnologia rivoluzionaria, come probabilmente ne abbiamo viste in passato solo altre due con una potenza analoga di impatto e di applicazione. La prima negli anni ’60, quando ci fu l’avvento dei semiconduttori, le fondamenta dell’informatica di base. Poi, nel 2000, con l’irruzione del World Wide Web, che ha poi portato tutta l’evoluzione dell’e-commerce e dell’e-business. Oggi è la volta dell’intelligenza artificiale, che con l’avvento dell’IA generativa sta evolvendo a una velocità mai vista prima. Quello che si fa oggi, domani potrebbe già essere vecchio e obsoleto. È questo il trend che ci aspettiamo continui nei prossimi anni, dove sarà quindi fondamentale fare in modo che traggano il massimo beneficio da questa trasformazione. Il punto di vista di Ibm sull’IA è quello di un’IA for business, quindi applicata al mondo del fare, responsabile e basata sull’open source, perché bisogna fare in modo che diventi democratica, portando valore a tutti e non solo a pochi. Affinché ciò avvenga, è fondamentale avere a bordo tutta la comunità che costantemente sviluppa e costruisce applicazioni che saranno sempre più sofisticate da aggiornare e mantenere. 

Quindi un’IA partecipata da una serie di intelligenze naturali esterne?
Ci sono alcune dimensioni importanti. La prima è quella tecnologica. C’è una grande discussione sul mercato attorno ai modelli fondativi (Llm) dell’AI: da quelli sviluppati ad hoc a quelli proprietari e a quelli open source. Noi questa dinamica l’abbiamo vista sul cloud, dove tutta la battaglia inizialmente era ‘il mio cloud è il migliore del tuo’. Oggi siamo atterrati a un’architettura tecnologica de facto che è quella di un cloud multi e ibrido, che Ibm ha sempre sostenuto. Nel senso che, per ogni applicazione, si valuta qual è l’infrastruttura sottostante più idonea per ospitare quel carico di lavoro. Oggi la stragrande maggioranza delle aziende adotta infrastrutture ibride, ovvero infrastrutture di tipo tradizionale unite a infrastrutture cloud di diversi provider. Ci aspettiamo che l’intelligenza artificiale faccia lo stesso percorso: tutte le applicazioni, tutti i software saranno potenziati con intelligenze artificiali (volutamente al plurale) da qui ai prossimi anni.  Il tema è rendere disponibile questi modelli a una comunità che lavora nell’ambito open source, affinché si possa costantemente migliorare, un po’ come accade con lo sviluppo di codici open source, in maniera progressiva la bontà di questi modelli. Ibm questo lo fa.

Cosa intende per bontà? 
Bontà vuol dire qualità, vuol dire anche disciplina nell’uso, vuol dire non utilizzare modelli sovradimensionati per le proprie finalità, con relativi impatti sui costi, ma modelli che sono trained, quindi allenati, istruiti, affinati, in maniera affidabile, trasparente, bias free, nel rispetto della privacy e anche con un impatto finanziario prevedibile e governabile. La grande preoccupazione che circola sul mercato è di non avere il controllo di questa tecnologia, quindi partire con piccole implementazioni, ma che poi quando vengono portate su scala, a regime, possono andare fuori governo dal punto di vista dei consumi e dei costi. 

Però il tema più importante è chi controlla l’IA.
Provo a mettere alcune risposte sul tavolo. A questo proposito, Ibm nel 2017 ha detto che i principi devono essere cinque: trasparenza, dimostrabilità, robustezza, data privacy e imparzialità. Mi soffermo soprattutto su trasparenza e dimostrabilità perché ogni modello deve essere in grado di spiegare, o quantomeno l’utilizzatore deve essere in grado di comprendere, su quali dati quel modello è stato allenato, formato e sviluppato. E questo non è un dettaglio. La questione relativa a quali sono i dati, quali sono i modelli, qual è la qualità del dato attraverso cui si formano questi modelli è dirimente, tanto quanto come funziona l’algoritmo sviluppato. Rispetto a questo, Ibm ha fatto una scelta di campo sostenendo e applicando, dallo sviluppo all’utilizzo, principi per noi fondamentali come trasparenza, etica e dimostrabilità dei propri modelli. Per permettere a chi utilizza l’IA di Ibm di beneficiare dei suoi vantaggi, contenendo, al tempo stesso, i rischi, primo fra tutti quello di incorrere nelle cosiddette ‘allucinazioni’. 

Rischi di che tipo?
Nello sviluppo dei modelli di IA potrebbero esserci dei bug da un punto di vista di data privacy, oppure delle risultanze che potrebbero portare a discriminazioni di genere, colore, età, e influire in modo negativo sugli use case relativi. Penso, ad esempio, a processi di assunzione, alle applicazioni che devono tener conto di temi legati al Gdpr o a normative Ue come l’IA Act, destinato a normare questo ambito. Ibm ha scelto di promuovere i principi dell’IA e di seguirli dallo sviluppo all’applicazione, diventando anche tra le capofila dell’IA Alliance, una comunità internazionale nata lo scorso anno e che oggi annovera oltre 100 organizzazioni che operano nel b2b come Intel, Amd, Red Hat, Linux Foundation,  il Cern di Ginevra, la Nasa e molte università, tra cui l’International Center for Theorethical Physics di Trieste. 

Con quale obiettivo concreto?
L’obiettivo è quello di operare nell’IA attraverso un approccio aperto alla scienza e alle tecnologie e con una maggiore collaborazione e condivisione delle informazioni, perché solo su questa strada potremo evolvere più velocemente e in modo più inclusivo, identificando e mitigando anche gli eventuali rischi. Per Ibm l’open innovation, governata in modalità partecipativa e diffusa da chi la conosce e la sviluppa, potrà creare le condizioni per una tecnologia che non lascia indietro nessuno e porta vantaggi nei diversi ambiti di applicazione.

Qui però si entra nel campo dell’etica-tecnologica.
È il pensiero che ci ha portato, nel 2020, a essere tra i primi firmatari della Call for AI Ethics promossa dalla Pontificia Accademia per la Vita e i cui valori verranno portati da Papa Francesco anche al prossimo G7. Proprio per sottolineare quanto l’etica sia importante per cogliere le grandi opportunità che l’intelligenza artificiale, se ben governata e con il capitale umano al centro, può portare alla società.

Ma l’intelligenza artificiale può diventare una specie di Spectre?
Ritengo di no, se ben governata. Ibm ha annunciato nel 2023 la propria piattaforma di IA generativa. Si chiama watsonx. Watson come Thomas J. Watson, il nostro fondatore. La piattaforma è composta da tre moduli. Il primo è quello dei dati (watsonx.data). Cosa fa? Gestisce e ottimizza i dati, appunto. Il secondo (watsonx.ai) è quello che permette di addestrare, validare, affinare e applicare tutti i modelli di IA. E poi il terzo (watsonx.governance) permette di gestire l’intero life cycle dei flussi di lavoro di IA, tracciando tutto quello che succede dal momento dello sviluppo fino al suo utilizzo, rendendo tali flussi di lavoro di IA responsabili, trasparenti e spiegabili. Ecco cosa intendo quando dico ‘ben governata’.

Nella pratica?
Succede che una banca, una pubblica amministrazione o una qualunque azienda hanno costantemente sotto controllo la loro IA: chi ci ha messo le mani, dove stanno le responsabilità di certe scelte e con quale qualità il codice è stato sviluppato, distribuito e utilizzato. Questo oggi è un unicum che Ibm offre al mercato, proprio perché propone un’IA per il business responsabile e governata. La sintesi è che l’IA va lasciata libera di aiutarci, springionando il suo potenziale, suppur entro binari tracciati.

Ci sarà anche una ricaduta economica?
Si stima che questa frontiera tecnologica porterà a livello globale, da qui al 2030, qualcosa come 4mila miliardi di dollari in produttività in più; per l’Italia una ricaduta paragonabile a un nuovo Pnrr. Ciò significa maggiore efficienza, maggiore qualità, automazione dei processi, elevazione del baricentro delle competenze del capitale umano, sollevato da compiti più routinari per occuparsi di attività a maggior valore umano aggiunto. Tutto questo richiederà anche un riallineamento delle professionalità, per creare competenze tecniche, analitiche e umanistiche che possano sfruttare a pieno questa tecnologia.

Può fare qualche esempio concreto, se non altro per capire quali sono i vantaggi pratici dell’IA?
I tre casi d’uso oggi di più rapida applicazione sono digital labor, cioè il miglioramento e il potenziamento delle risorse umane, come ha fatto Barilla creando un assistente che aumenta le competenze del personale; customer services, ovvero casi in cui l’IA viene impiegata per rendere più semplici e coinvolgenti i servizi legati ai clienti, come nel caso di Wind Tre. Grazie all’utilizzo della nostra IA, inclusa la componente watsonx Assistant, sono riusciti ad automatizzare i processi di gestione delle chiamate e dei ticket aperti dagli operatori interni. Oggi il 60% dei ticket non prevede il coinvolgimento del service desk e la relativa velocità di gestione è aumentata di dieci volte rispetto a prima. Vuol dire che la forza lavoro di Wind Tre, lavorando congiuntamente con la tecnologia, può occuparsi di attività a maggior valore, realizzando una scalabilità senza precedenti. E infine c’è l’It for It.

Intende il tema dei codici vecchi da aggiornare? Chissà quanti ce ne saranno in giro.
Esattamente. Le applicazioni fatte negli anni ’80 e ‘90 sono spesso di difficile modernizzazione. Oggi succede che l’It di molte organizzazioni, pubbliche e private, deve impiegare le proprie risorse per aggiornare linee di codice, o tradurle da un linguaggio a un altro. Watsonx Code Assistant, ovvero l’assistente per il codice, fa sì che questo venga fatto con un’importante automazione, grazie all’intelligenza artificiale che aiuta lo sviluppatore a produrre un codice aggiornato. Ad esempio, sviluppare in linguaggio Java, oggi, è possibile in giorni o ore, mentre prima erano necessarie settimane; alternativamente, la migrazione da linguaggio Cobol (nato negli anni ’50) a linguaggi più moderni si riduce da mesi a pochi giorni.  Un passaggio fondamentale per la modernizzazione e l’efficienza delle aziende, che possono così spostare i carichi di lavoro in ambienti più performanti e agili. E questo riguarda in gran parte anche la pubblica amministrazione.

Anche perché c’è la diretta correlazione, lo sappiamo benissimo, tra il grado di efficienza della pubblica amministrazione e l’attrattività del Paese. 
Abbiamo il Pnrr, non dimentichiamocelo. Ci sono risorse importanti. Sicuramente quello della modernizzazione della Pa è un tema prioritario, su cui intendiamo lavorare. È importante che questi strumenti vengano messi a disposizione non solo delle grosse realtà della pubblica amministrazione che hanno risorse, competenze, strumenti, ma anche delle amministrazioni piccole e medie, in modo che ci sia un percorso di accompagnamento e un lavoro d’insieme. Ci sono delle iniziative che stanno partendo sul digitale e credo che arriveranno anche sull’intelligenza artificiale, mutuando quello che abbiamo già visto su altri fronti tecnologici. 

Però, visto come va il mondo, diventa fondamentale il rapporto tra cyber security e IA.
In effetti IA e cyber sono legati tra di loro a doppio filo. Bisogna avere un’IA sicura perché contribuisce a rendere più sicure tutte le infrastrutture digitali e, al tempo stesso, le barriere cyber possono essere innalzate grazie all’IA. Ibm ha inaugurato un paio di mesi fa l’Ibm Cyber Academy di Roma, un’iniziativa nata con il patrocinio dell’Acn, l’Agenzia per la cybersecurity nazionale, per preparare ogni tipo di organizzazione a prevenire gli attacchi informatici, ma anche per saperli gestire al meglio. Di iniziative analoghe ne abbiamo solo tre in tutto il mondo: una a Washington, una a Bangalore e la terza a Roma.

E cosa fate nella Cyber Academy? 
Simuliamo quella che è una ‘giornata di ordinaria follia’, ovvero quando un’azienda è sotto attacco informatico. È un’esperienza immersiva che fa capire quali sono tutti i processi e comportamenti che devono essere attuati all’interno di un’organizzazione sotto attacco, che non riguardano solo l’It o la security, ma tutte le divisioni di business, dalla comunicazione al finance, dall’hr al legal, per tutto quello che ne può conseguire in termini di impatto sulla continuità dei servizi, ma anche sulla reputazione aziendale. Serve testare il grado di preparazione di un’organizzazione a fronteggiare tali eventi e a formare le necessarie competenze. La Cyber Academy è tra quelle iniziative pubblico-private che vanno a definire la direzione su cui lavorare. Ritornando all’intelligenza artificiale, credo che di qui a breve avremo un piano e un’agenda di IA nazionale. Dopo una regolamentazione, in linea con l’AI Act dell’Ue, tutti saremo chiamati a partecipare e a svolgere un ruolo: grandi e piccole organizzazioni, internazionali e locali. L’Ibm è già pronta a fare la sua parte.

Chiudiamo con una domanda pratica. Come fa un’azienda a scegliere tra le tante proposte di utilizzo di intelligenza artificiale che le vengono offerte sul mercato?
Io inizierei partendo da quella che, di fatto, è la grande differenza tra un approccio proprietario, per definizione chiuso, e un approccio aperto. Un’azienda non credo che voglia dare tutti i tuoi dati, tutti i suoi sistemi, a un unico soggetto, che magari opera unicamente attraverso modelli di intelligenza artificiale proprietari.  Il fatto di poter lavorare con qualcuno come Ibm, che ha sposato assieme al suo ecosistema l’approccio aperto, è dal nostro punto di vista la soluzione migliore. Come abbiamo recentemente annunciato al Red Hat Summit e a Ibm Think Boston, la nostra impostazione è quella di prediligere una tecnologia quanto più partecipata e condivisa. Un’IA che abbia tanti insegnanti a guidarla e svilupparla piuttosto che uno solo a limitarla. Un approccio che dia la possibilità di scegliere in ogni momento qual è il modello migliore da utilizzare. Con il vantaggio di controllarne e verificarne sempre l’operato. Questo riteniamo sia il vero valore differenziante del modo in cui Ibm intende guidare lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Un valore che potrei riassumere con due parole in particolare: fiducia e responsabilità. Le stesse da 94 anni a questa parte.  

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