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Yalta geopolitica
Strategia

Perché la politica mondiale è ancora determinata dagli accordi di Yalta

Articolo tratto dal numero di luglio 2024 di Forbes Italia. Abbonati!

Con la decisione di Joe Biden, che il 30 maggio ha autorizzato l’uso dell’arsenale americano per attaccare all’interno del territorio russo, la partita geopolitica si è riscaldata. Poche ore dopo, Regno Unito, Finlandia, Svezia, Stati baltici, Polonia, Repubblica Ceca, Danimarca, Olanda, Norvegia e Canada hanno sostenuto senza se e senza ma la politica della Nato, mentre Francia, Germania (che ha annunciato la reintroduzione del servizio militare obbligatorio) e Italia paiono abbozzare qualche timida critica. Difficile immaginare che in Europa prevalgano le colombe (Spagna e Portogallo), perché le decisioni in materia di guerra e pace sono in mano al Pentagono.

Sembra incredibile che nel 2024 la geopolitica mondiale possa ancora essere determinata dagli accordi di Yalta e che si possa ancora parlare, in modo sempre meno metaforico, di fronte occidentale (Ucraina/Russia) e fronte orientale (Taiwan/Cina). Eppure la Guerra fredda si è riaperta, sebbene fuori dalla contrapposizione capitalismo/socialismo. La Russia, solo paese che si estende da Occidente a Oriente, con le sue straordinarie ricchezze di materie prime, gioca un ruolo da protagonista, nonostante il più che ventennale processo di de-industrializzazione seguito all’implosione dell’Unione Sovietica. Soltanto nell’ultimo decennio, proprio dopo i fatti di Odessa e di Maidan, Putin è riuscito ad arrestare il declino industriale e perfino a invertirlo, nell’ambito di una conversione bellica innescata dall’aggressività della Nato nei Balcani, a cominciare dai bombardamenti dei ponti di Belgrado nel 1999.

Il progetto Brics Pay

Russia e Cina non sono più apparentate dall’ideologia e divise dalla rivalità all’interno del blocco socialista, come avvenuto dopo la morte di Stalin e la mancata successione di Mao alla guida dell’Internazionale. Oggi sono accomunate da interessi economici, con notevole crescita degli scambi commerciali a partire dal 2022 e con un progetto capace di mutare le egemonie planetarie, cioè un sistema finanziario non più fondato sul dollaro, ma su Brics Pay, una moneta digitale con sottostante l’oro, realizzata attraverso la blockchain.

Tale progetto, in fase avanzata, si baserà su una rete di accordi bilaterali che coinvolgono anche Brasile, India, Sud Africa, Egitto, Etiopia, Iran ed Emirati Arabi Uniti. Joseph Halevi, professore dell’Università di Sidney, in una lezione all’Alterfestival dell’Economia di Torino ha mostrato come questo disegno globale, alternativo all’atlantismo, si traduca in una rete di infrastrutture logistiche molto ambiziosa, nella cui realizzazione, fino al 2022, era coinvolta anche l’industria pesante tedesca con il suo indotto europeo (Austria, Repubblica Ceca, Polonia, Olanda, Ungheria), e in particolare i gruppi Siemens e Audi-Ww.

L’Italia, de-industrializzata a causa della dismissione dell’Iri, era ormai fuori da questi giochi, seppure la partecipazione alla Via della seta avesse aperto qualche spiraglio al nostro Nord-Est (in particolare al Porto di Trieste). Dopo l’inizio delle ostilità sul fronte occidentale e la distruzione del gasdotto Northstream II, solo l’industria ferroviaria spagnola è ancora coinvolta nella costruzione infrastrutturale dell’ecosistema Brics, e i tedeschi del dopo Merkel paiono aver commesso il classico harakiri, trascinandosi dietro tutta l’Europa. Infatti la locomotiva tedesca, al cui traino sta l’Unione europea, fondata sulla manifattura industriale pesante, può tirare solo a due condizioni: energia a buon mercato e sbocco nei paesi emergenti per i suoi manufatti d’alta gamma. Queste condizioni sono cancellate dal febbraio 2022.

Fronte orientale e fronte occidentale

Gli Stati Uniti beneficiano del signoraggio del dollaro fintanto che questo resta valuta di riferimento internazionale, e vedono con terrore lo sviluppo di ogni alternativa di pagamento. Per questo non hanno mai amato l’Eurosistema e hanno indotto la Germania, locomotiva europea, al suicidio. Per questo, insieme ai francesi, che a loro volta volevano difendere il franco cfa, hanno distrutto la Libia di Gheddafi quando è stato chiaro che le sue riserve d’oro, acquistato con la vendita di gas e idrocarburi fossili, sarebbero servite per costruire una moneta panafricana indipendente. Per questo hanno aperto un fronte orientale, per ora solo finanziario (ma chissà per quanto ancora), per indebolire il renminbi cinese (tramite l’umiliazione dello yen), che Pechino vuole invece forte e stabile insieme alle altre quattro R (rublo, real, rupia, rand) in fase di costruzione del Brics Pay.

Come sul fronte occidentale Washington gioca pesante con la Germania, grande sconfitta del secolo breve, il cui territorio è infestato da basi nucleari e truppe (le cosiddette basi Nato, foglia di fico dell’occupazione militare), così fa sul fronte orientale. Qui il coartato è il Giappone, tenuto sotto un giogo fin dai tempi di McArthur. Senza disdegnare la distruzione politica di Shinzo Abe, eroe di quell’abenomics che, dopo la crisi seguita alla spettacolare crescita fino alla metà degli anni ’90, ha fatto ripartire l’economia nel primo decennio del nuovo millennio, tramite una politica di tassi di interesse bassissimi (spesso negativi), investimenti pubblici a deficit (350% di rapporto debito/Pil) e valore basso e stabile dello yen. Ciò ha significato che gli investitori giapponesi sono divenuti i primi acquirenti di debito americano (e grandi esportatori di beni ad alta tecnologia comprati a debito dai consumatori statunitensi).

Gli Stati Uniti hanno beneficiato di questa politica che ha consentito loro di gestire la propria de-industrializzazione, e sono quindi terrorizzati dall’eventualità di un riapprezzamento dello yen e di una crescita di tassi in Giappone, perché li esporrebbe a fughe di capitali, che gli investitori giapponesi riporterebbero a casa. In clima di guerra (per ora) finanziaria con la Cina, che è la seconda detentrice mondiale di debito pubblico statunitense, lo yen è utile inoltre per spingere al ribasso il renminbi cinese, con impatto significativo sulla realizzabilità del progetto Brics Bay. Grazie alle pressioni ribassiste americane (nel febbraio ‘22 un dollaro costava 115 yen, oggi quasi 160), la Cina sarebbe costretta a svalutare la moneta per mantenere il proprio mercato di esportazione. Tuttavia Pechino tiene duro e non svaluta. La guerra finanziaria fra i due blocchi è aperta.

La frontiera della rete

La guerra è aperta anche sulla frontiera della rete. Il mercato azionario occidentale è frastornato dal successo di Nvidia, che ha il core-business nei videogiochi. I suoi profitti sono stellari: poco meno di 15 miliardi di utili netti quest’anno, con il titolo a oltre 900 dollari, dopo essere stato scambiato a 100 a inizio ostilità. La sola azienda in grado di contrastarla è la cinese Huawei. Maurizio Davi rende bene l’idea quando si domanda: vinceranno i chips H20 di Nvidia o gli Ascend910B di Huawei? Solo chi non vuole vedere può credere che questa contesa riguardi i videogiochi. La sorveglianza e la guerra contemporanea sono gestite con le stesse tecnologie. Guidare un missile o un drone da remoto è come giocare ai videogame. In un’economia di guerra, non possono che vincere produttori di guerra.  

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