Articolo tratto dal numero di febbraio 2025 di Forbes Italia. Abbonati!
“Oggi offro la nostra nazione come il luogo più neutrale e non allineato per la produzione di semiconduttori e per contribuire a costruire una catena di fornitura di chip più sicura e resistente”. Così si è espresso il primo ministro malese Anwar Ibrahim, sottolineando la volontà del governo di Kuala Lumpur di puntare sullo sviluppo dell’industria dei semiconduttori. Da anni la Malesia cerca, con successo, di porsi come alternativa alla Cina nell’industria dei chip. Kuala Lumpur vuole risolvere con la National Semiconductor Strategy e il New Industrial Master Plan 2030 due limiti dell’industria dei semiconduttori del paese: la carenza di capitale umano e l’estrema dipendenza da partner esteri. Per farlo il governo ha stanziato incentivi fiscali di oltre 5 miliardi di dollari per attrarre 100 miliardi di investimenti e formare oltre 60mila ingegneri l’anno, contro i cinquemila attuali.
La Silicon Valley d’Oriente
Questa strategia ha catalizzato 68 miliardi di dollari di investimenti esteri nel 2023, il 23% in più rispetto al 2022, da multinazionali come Intel, Bosch, Infineon e Texas Instruments. Non da ultima, Nvidia ha annunciato un esborso da 4 miliardi per la creazione di infrastrutture per l’IA e per il supercomputing tramite una joint venture con l’azienda malese Ytl Power International. Per questo il Financial Times ha definito la Malesia “vincitrice a sorpresa” della guerra tecnologica tra Stati Uniti e Cina. Lo stato malese del Penang, infatti, detiene circa il 13% del mercato mondiale dell’assemblaggio, del confezionamento e del test dei microchip. Si calcola che il 20% dei semiconduttori importati negli Stati Uniti arrivi dalla Malesia, tanto che molti analisti hanno definito il paese asiatico la “Silicon Valley d’Oriente”. Il ministro dell’Economia malese, Rafizi Ramli, ha affermato che l’obiettivo è creare posti di lavoro altamente qualificati e ad alto valore aggiunto.
In questo modo il paese potrebbe uscire dalla cosiddetta ‘trappola del reddito medio’. Dal 1996 a oggi, infatti, il Pil pro capite è passato da 4.800 dollari a 11.700 dollari all’anno, ben lontano dei livelli delle economie più avanzate. Molti paesi emergenti, dopo un primo stato di sviluppo basato sul basso costo del lavoro, non riescono a virare verso settori a maggiore incidenza tecnologica e alta produttività, arrivando a un aumento delle remunerazioni. Puntare sull’industria dei microchip potrebbe aiutare a superare questa impasse.
Il business delle terre rare
Un altro settore strategico per l’economia di Kuala Lumpur è quello delle terre rare. Secondo la Malaysian investment development authority (Mida) il paese detiene 18,2 milioni di tonnellate di riserve di terre rare, valutate 174 miliardi di dollari. Il governo vuole trasformare il paese in un hub non solo di estrazione, ma soprattutto di raffinazione per le terre rare, oggi quasi a esclusivo appannaggio cinese. L’Agenzia internazionale dell’energia ha stimato che nel 2030 la Malesia sarà il secondo raffinatore al mondo dopo la Cina, con una quota del 12%.
Con Pechino, inoltre, il governo di Ibrahim ha in essere una diatriba sulla sovranità della secca di Luconia, nel Mar Cinese Meridionale. Quest’area, che si trova a 1.300 chilometri dalle coste cinesi e a 100 dallo stato malese del Sarawak, è di grande rilevanza perché vi si trova il 20% delle riserve di gas malesi e un’ingente fauna ittica. La Cina ne rivendica la sovranità, ma la Malesia continua a estrarvi gas tramite la compagnia statale Petronas. Pechino è un partner con il quale, però, Kuala Lumpur non può permettersi di andare in aperto contrasto. Nel 2023 gli investimenti diretti cinesi in Malesia hanno raggiunto 1,28 miliardi di dollari (+28% rispetto al 2022) e l’interscambio commerciale nei primi sette mesi del 2024 è stato di 117,5 miliardi, oltre il 10% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il governo malese dovrà essere bravo a non sbilanciarsi troppo verso la Cina o a servirsi di aziende cinesi nel mirino delle sanzioni americane per evitare di essere sanzionato a sua volta.
Incertezze politiche e tensioni religiose
Altra criticità sono le recenti tensioni etniche e religiose. Il paese è per i due terzi composto da cittadini di etnia malay e di religione islamica, ma ci sono due importanti minoranze: quella cinese, il 20% della popolazione, e quella indiana di religione indù (circa il 6%). Negli ultimi mesi si sono verificati numerosi episodi di intolleranza tra la maggioranza islamica e la minoranza cinese. Ad aggiungere confusione si aggiunge il fatto che nel paese sono presenti due sistemi giuridici: uno valido per tutti i cittadini e l’altro, basato sulla Shari’a, valido solo per i cittadini di religione islamica.
Dal punto di vista politico, poi, la situazione non è meno ingarbugliata. La Malesia è una monarchia costituzionale federale divisa in 13 stati, di cui nove sono governati da sultani locali che a turno ricoprono il ruolo di capo dello Stato. I cittadini votano per eleggere il parlamento. Dall’indipendenza del 1957 al 2018 il paese è stato governato solo da sei primi ministri appartenenti allo stesso partito, lo United Malays National Organization (Umno). Dal 2018 a oggi, invece, si sono avvicendati quattro primi ministri. L’attuale governo è basato su una coalizione tra il partito del premier, Pakatan Harapan, e l’Unmo. L’incertezza politica potrebbe essere un freno allo sviluppo economico e agli investimenti esteri. La Malesia ha tutte le caratteristiche per diventare una potenza regionale in Asia: posizione geografica dominante sullo stretto di Malacca, ingenti riserve di terre rare, autosufficienza energetica, popolazione giovane e istruita, solida infrastruttura per l’industria dei semiconduttori. Il governo in carica dovrà, però, trovare l’equilibrio tra l’influenza cinese e quella americana ed evitare che tensioni etniche o religiose creino instabilità.
Per altri contenuti iscriviti alla newsletter di Forbes.it CLICCANDO QUI .
Forbes.it è anche su WhatsApp: puoi iscriverti al canale CLICCANDO QUI .