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Perché nel mondo si è scatenata una nuova febbre dell’oro

Articolo tratto dal numero di luglio 2024 di Forbes Italia. Abbonati!

Il 15 agosto 1971 il presidente americano Nixon annunciava la fine della convertibilità del dollaro in oro, stabilita nel 1944 a Bretton Woods. La guerra in Vietnam e il disavanzo con l’estero avevano assottigliato le riserve auree dai 24 miliardi del 1948 a soli 10 miliardi. Tutto ciò non era più sostenibile. Nixon, inoltre, voleva essere libero di stampare dollari per sostenere l’economia in previsione delle elezioni dell’anno seguente, a rischio di creare inflazione, come effettivamente avvenne, e di svalutare il dollaro. Dopo 50 anni, il presidente russo Vladimir Putin, nel marzo 2022, ha annunciato la convertibilità del rublo in oro, per sostenere la valuta depressa dopo l’invasione dell’Ucraina, con un cambio fisso di 5mila rubli al grammo.

L’andamento del prezzo dell’oro

Il prezzo dell’oro dal 2022 ha continuato a crescere, superando nel 2024 i 2.400 dollari l’oncia. Una crescita avvenuta nonostante i rialzi dei tassi di interesse da parte delle banche centrali di tutto il mondo. Un aumento dei tassi, specialmente dei tassi di interesse reali, solitamente portava a un calo del prezzo dell’oro, e viceversa. Non nell’ultimo biennio. Questo perché l’oro è una risorsa scarsa, le banche centrali dei paesi emergenti lo hanno acquistato come alternativa al dollaro statunitense nelle loro riserve e l’incertezza geopolitica globale lo ha riproposto come safe asset.

Si calcola che nel mondo ne siano presenti solo 180mila tonnellate e che, se venisse fuso, otterremmo un cubo di appena 21 metri di lato. Inoltre, le banche centrali ne hanno sostenuto la domanda: sono responsabili del 23% degli acquisti a livello globale (in crescita dal 11% del 2022), secondo i dati del World Gold Council. Un trend che, specie per i paesi emergenti, si è invertito nel 2008: da quell’anno le riserve auree sono più che raddoppiate. Fino ad allora erano calate, per via della fine del gold exchange standard, dal 72% del totale nel 1956 a meno del 20% nei primi anni Novanta. 

La corsa all’oro della Cina

È stato calcolato che, se i paesi emergenti arrivassero a detenere oro per il 10% delle loro riserve, anziché per meno del 5% come oggi, la domanda globale crescerebbe del 75%. Il primo produttore e importatore del mondo è la Cina, con 1.090 tonnellate nel 2023. La Banca Popolare Cinese (cioè la banca centrale) ne ha acquistate 225 tonnellate, passando dalle 395 che aveva nel 2000 alle 2.262 di oggi. Anche gli acquisti da parte dei cittadini sono aumentati, con lo Shanghai Gold Exchange che ha visto crescere la domanda del 95% rispetto al 2022.

In particolare, la fascia di popolazione tra i 25 e i 34 anni è responsabile del 59% degli acquisti d’oro nel paese. Il metallo è visto dai giovani come riserva di valore, a differenza del classico investimento nel mattone, sotto pressione per via della crisi che ha travolto l’immobiliare cinese. L’oro ha il grande vantaggio di avere un valore reale, di non essere soggetto a default e di essere molto liquido. Caratteristiche apprezzate nei paesi con valute deboli, sempre a rischio svalutazione, e afflitti da iperinflazione. Come la Turchia,  dove i cittadini non hanno altra chance per salvaguardare i loro risparmi.

Il progetto di una valuta dei Brics

La Russia, invece, sta acquistando in media 56 milioni di dollari in oro al giorno per sostenere una sorta di gold standard 2.0. Il processo di riacquisto era partito già nel 2013, con un peso nelle riserve della banca centrale passato, nel decennio 2013-2023, dal 10% al 23% del totale. Come se il Cremlino si preparasse alle conseguenze di una guerra all’Ucraina. Mosca, poi, per ottenere dollari aggirando le sanzioni, rivende il suo oro agli Emirati Arabi Uniti, che sono passati da un import di 1,3 tonnellate nel 2021 a 75 nel 2022.

A maggio l’India ha rimpatriato 100 tonnellate di oro fisico che erano depositate nel Regno Unito, forse per usarle come asset reale a difesa di una possibile svalutazione della rupia. La sostituzione delle riserve in dollari statunitensi con l’oro da parte delle banche centrali dei paesi emergenti viene vista come possibile argine all’instabilità finanziaria e alla svalutazione delle monete nazionali, spesso ‘vittime’ delle politiche della Federal Reserve e del rafforzamento della valuta statunitense. Cina e Russia, ovviamente, sono i massimi sostenitori di questa teoria e spingono per la creazione di una valuta dei paesi Brics, alternativa proprio al dollaro statunitense, garantita da riserve auree o dalle materie prime degli stati stessi. In questo modo, Putin e il presidente cinese, Xi Jinping, puntano a scalfire il predominio della valuta americana, elemento fondamentale della potenza economica e geopolitica di Washington dal secondo dopoguerra a oggi.

Liberarsi dal giogo del dollaro è ciò a cui le cancellerie russa, cinese e di diversi altri paesi emergenti aspirano, anche perché l’oro potrebbe fungere da garanzia per le loro monete nazionali. Per di più, dall’invasione russa dell’Ucraina, la Banca Popolare Cinese ha venduto circa 230 miliardi di titoli di stato americani, di cui 53 miliardi nel solo primo trimestre 2024. Così facendo, la Cina ora detiene ‘solo’ 767 miliardi di dollari in obbligazioni governative Usa, contro gli oltre 1.200 miliardi del 2017. Questo non solo per acquistare oro, ma per mettere in difficoltà il governo statunitense, a cui viene a mancare uno dei principali prestatori di denaro, in un momento in cui il debito federale ha superato il 120% del Pil e i 34mila miliardi di dollari. La sfida tra Cina e Stati Uniti si gioca perciò anche su un terreno monetario. E l’oro potrebbe essere il mezzo per indebolire ulteriormente Washington.  

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