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Cos’è il carry trade e perché il rilancio dello yen è tra le cause principali del sell-off azionario

Archiviata una seduta all’insegna del rosso, la peggiore dal ‘Black Monday’ del 1987, oggi la Borsa di Tokyo è risalita. Il Nikkei ha infatti chiuso in rialzo del 10,23% a 36.675,46 punti, facendo registrare così la sua più grande impennata della storia in una singola seduta.

Un risposta positiva che però non sta coinvolgendo gli altri principali indici mondiali, che viaggiano sulla parità o in terreno negativo. In Europa, il nostro Ftse Mib, nonostante il rally di Mps (+7,3%, grazie ai conti dell’ultima trimestrale), sta cedendo oltre l’1%. Cali anche per il Cac 40 di Parigi e per l’Ibex 35 di Madrid. Più limitate le perdite del Dax di Francoforte e dell’europeo Eurostoxx in discesa dello 0,2%.

In leggera crescita, sotto comunque l’1%, i futures dei principali indici di Wall Street che ieri sono stati trascinati al ribasso dal crollo giapponese. Infatti, se l’S&P500 e il Nasdaq hanno stornato ai propri minimi da inizio maggio, il Dow Jones è tornato ai livelli di giugno. Un calo diffuso che ha alla base diversi fattori: dalla discesa del settore tech e l’incertezza delle banche centrali (in particolare della Fed che non ha ancora tagliato i tassi di interesse), fino ad arrivare al discusso carry trade e alla volatilità del mercato valutario.

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Il rovescio della medaglia del carry trade

Per capire il ruolo e l’impatto del carry trade in questo sell-off azionario, dobbiamo però prima di tutto fare un passo indietro e partire così dal suo stesso funzionamento. Come spiega Borsa Italiana, si tratta di una strategia di investimento che consiste nel prendere in prestito capitali in una data valuta per investire gli stessi in strumenti finanziari in altre valute e comunque con un rendimento superiore al costo del finanziamento.

Una strategia ampiamente nota ai mercati che solitamente riguarda strumenti a basso rischio, come i titoli di Stato. D’altronde, non è un caso se l’operazione di carry trade diventa profittevole quando le valute scelte godono di un rapporto abbastanza stabile nel tempo e in particolare nel periodo che intercorre tra il momento in cui viene contratto il prestito e quello in cui viene restituito.

Ma cosa c’entra tutto ciò con le reazioni odierne dei mercati? Negli ultimi anni, dati i bassi tassi di interesse giapponesi, è risultato piuttosto conveniente indebitarsi in yen. Prestiti che sono serviti per effettuare investimenti soprattutto nei mercati azionari emergenti e nei bond ad alto rendimento di Stati Uniti, Nuova Zelanda, Australia e Regno Unito (ovviamente eseguiti dopo aver convertito gli yen nella valuta di riferimento). Poi scadute le varie obbligazioni, il denaro viene riconvertito in yen e utilizzato per ripagare il debito contratto in Giappone.

Un’operazione conveniente perché contestualmente – a causa proprio dell’eccessiva morbidezza della banca centrale giapponese – lo yen è andato incontro a un continuo deprezzamento nei confronti delle altre valute. Almeno fino alla scorsa settimana.

L’influenza dei tassi giapponesi

Con la decisione da parte della banca centrale di alzare i tassi di riferimento a circa lo 0,25%, il livello più alto dal 2008, la musica è cambiata. Perché anche se è sempre conveniente stipulare prestiti in Giappone (rispetto ai tassi in Europa e negli Usa, con la Fed finita nel mirino delle critiche dato che non ancora provveduto al taglio), tuttavia lo yen ha iniziato a prendere campo nei confronti delle altre valute, in particolar modo del dollaro, al momento in difficoltà anche a causa degli ultimi dati macroeconomici non positivi per l’economia americana. In poco più di tre settimane infatti la valuta giapponese è salita del 10% rispetto al biglietto verde.

Dimostrazione evidente che la mossa della banca centrale giapponese “riflette la sua fiducia nello sviluppo macroeconomico del paese, compresa la crescita dei salari. Inoltre, mitiga il rischio di un’ulteriore debolezza dello yen, che avrebbe potuto portare a un aumento dell’inflazione in Giappone”, come ha evidenziato Taku Arai, Deputy Head of Japanese Equities di Schroders.

Diretto anche Simon Webber, head of global equities della società. “I carry trade sullo yen giapponese al momento vengono rapidamente liquidati, causando un’elevata volatilità e un rapido apprezzamento dello yen. Lo yen era diventato molto sottovalutato. Per ora è difficile dire se i mercati abbiano reagito in modo eccessivo o se tutto il posizionamento sia stato liquidato”.

Il precedente del 1998

Non è la prima volta che i carry trade operati in Giappone danno vita a degli esiti simili a quelli di questi giorni. Nell’ottobre del 1998 un’ondata di avversione al rischio scosse proprio il carry trade sullo yen, favorendo in soli quattro giorni un apprezzamento della valuta nipponica del 15% nei confronti del dollaro statunitense. Siamo lì.

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