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Il Regno Unito ha chiuso l’ultima centrale a carbone. Ma nel mondo non se ne è mai bruciato così tanto

Nel 1882 Thomas Edison inaugurava la prima centrale a carbone del mondo, nel centro di Londra. Centoquarantadue anni dopo, l’ultima centrale a carbone del Regno Unito ha cessato l’attività. L’impianto di Ratcliffe-on-Soar, con il suo camino alto 199 metri, avrebbe dovuto chiudere già nel 2022, ma la società che lo gestisce, la tedesca Uniper, aveva rimandato a causa della crisi energetica innescata dalla guerra in Ucraina. Circa 100 dei 170 lavoratori della centrale si occuperanno della dismissione, che richiederà più o meno due anni.

Il Regno Unito è diventato così il primo paese del G7 ad abbandonare il carbone. Nei prossimi anni dovrebbero imitarlo Francia, Italia e Canada. Eppure nel mondo non si è mai bruciato così tanto carbone: nel 2023, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), il consumo ha superato per la prima volta gli 8,5 miliardi di tonnellate. Un dato che dovrebbe calare da qui al 2026, ma a un ritmo insufficiente per rispettare l’accordo sul clima di Parigi.

Il carbone nel mondo

Il carbone è il combustibile fossile più inquinante: a parità di energia prodotta, causa più del doppio delle emissioni di CO2 rispetto al gas naturale e circa il 35% in più rispetto al petrolio. Nel 2023 la metà del consumo mondiale avveniva in Cina, dove rappresenta il 61% della fornitura di energia e il 71% della produzione sul territorio nazionale. In India, secondo paese al mondo per consumo, le quote sono del 46% e del 52%. Per via del generale aumento della domanda e dello scarso contribuito dell’idroelettrico, entrambi i paesi hanno incrementato l’uso del carbone nel 2023: +8% per l’India, +5% per la Cina.

Il terzo consumatore di carbone al mondo e il primo occidentale sono gli Stati Uniti. Secondo la Energy Information Administration, l’agenzia statistica del dipartimento dell’Energia, nel 2023 il carbone forniva tanta energia quanta tutte le fonti rinnovabili messe assieme: il 9% del totale.

Gli Usa, a differenza di Cina e India, stanno però riducendo il peso del carbone nel loro mix energetico. E la tendenza non dovrebbe cambiare nemmeno se alle elezioni del 5 novembre vincesse Donald Trump, che pure ha promesso di smantellare le norme sul clima volute dall’attuale presidente, Joe Biden.

Il caso americano

Il New York Times ha rilevato che nelle campagne elettorali del 2016 e del 2020 Trump aveva parlato molto di carbone. Aveva promesso ai minatori di rivitalizzare il settore e creare nuovi posti di lavoro. Quest’anno ha detto di voler promuovere il petrolio e il gas naturale, aumentare le trivellazioni, interrompere il sostegno federale alle rinnovabili e ai veicoli elettrici, abbandonare di nuovo l’accordo sul clima di Parigi. Ha citato molto poco, invece, il carbone, se non per fare un confronto con la Cina e attaccare le rinnovabili: “La Cina apre una centrale a carbone ogni singola settimana, mentre noi ci affanniamo con il vento”, ha detto.

Del resto, scrive ancora il Nyt, durante la presidenza Trump, dal 2017 al 2021, gli Stati Uniti hanno chiuso 75 centrali a carbone e gli occupati nel settore sono diminuiti di 13mila unità, pur con un lobbista del carbone alla guida dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente. Ai repubblicani può non interessare il cambiamento climatico, ma interessa che, come ha evidenziato uno studio della società Energy Innovation Policy & Technology e dell’Università di Berkeley, ricavare energia dal carbone ormai costa più della sostituzione con le rinnovabili.

Charles McConnell, direttore del Center for Carbon Management in Energy all’Università di Houston, ha dichiarato alla testata specializzata E&E News, di proprietà di Politico, che “la transizione energetica è in corso e questa tendenza non cambierà in base a chi occuperà la Casa Bianca nei prossimi quattro anni. [Una vittoria di Trump] potrebbe dare un sollievo momentaneo a chi lavora nell’industria del carbone, ma non è una situazione sostenibile nel lungo periodo”.

Cosa succede negli altri paesi del G7

Gli Stati Uniti, assieme agli altri paesi del G7, si sono impegnati quest’anno ad abbandonare il carbone entro il 2035. Si parla, va precisato, di produzione ‘unabated’: secondo questa formulazione, ha scritto Vox, una centrale a carbone potrebbe continuare a funzionare con un sistema di cattura e stoccaggio della CO2 o usando un meccanismo di compensazione.

La scadenza del 2035 non dovrebbe essere un problema, oltre che per il Regno Unito, per altri tre membri del forum, che già ricavano dal carbone una minima parte dell’energia: il Canada si è impegnato ad abbandonare il carbone ‘unabated’ entro il 2030, in Francia il presidente Emmanuel Macron vuole convertire le ultime centrali a carbone alle biomasse entro il 2027, l’Italia dovrebbe chiudere gli ultimi impianti a carbone entro tre anni.

Germania e Giappone, invece, avranno bisogno di una trasformazione rapida per rispettare l’accordo. Entrambi dipendono dal carbone più degli Stati Uniti: per il Giappone è il 26% del mix energetico, per la Germania il 17,7% (e il 27% della produzione interna).

In particolare il Giappone, scrive ancora Vox, negli ultimi anni ha investito molto sul carbone, dopo che il disastro di Fukushima del 2011 ha frenato il suo programma nucleare. Storicamente poco indipendente a livello energetico – produce entro i propri confini solo il 12,1% dell’energia, secondo dati del 2021 riportati dal ministero dell’Economia – ha dovuto aumentare l’acquisto di combustibili fossili dall’estero. Solo nel 2023 ha aperto due nuove centrali a carbone.

Il carbone in Italia

L’Italia si muove in modo opposto al Giappone. Sia sul nucleare, che vuole reintrodurre dopo averlo abbandonato nel 1990, sia sul carbone.

Oggi, come ha spiegato pochi giorni fa Il Post, nel nostro Paese ci sono ancora quattro centrali a carbone attive. Tre sono gestite dall’Enel: la Federico II di Brindisi, quella di Torrevaldaliga Nord a Civitavecchia e la Grazia Deledda di Portoscuso, nella provincia del Sud Sardegna. La quarta è a Fiume Santo, in provincia di Sassari, ed è di Ep Produzione, società del gruppo ceco Eph.

Negli ultimi anni diversi impianti hanno smesso di produrre energia tramite carbone. Nel 2021 l’Enel ha chiuso la centrale Eugenio Montale di La Spezia, nel 2023 la Andrea Palladio di Venezia. Quest’anno, ad aprile, ha abbandonato il carbone la centrale A2A di Monfalcone, in provincia di Gorizia.

Il risultato è che oggi il carbone, secondo i dati del Gestore dei Servizi Energetici, rappresenta solo il 5,27% del mix energetico italiano. La quota è diminuita rispetto all’8,34% del 2022 e dovrebbe scendere ancora nei prossimi anni: in primavera il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, ha dichiarato che l’Italia non userà più carbone per produrre energia elettrica sul continente dopo il 2025, mentre in Sardegna smetterà nel 2027.

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