elezioni Usa
Strategia

Perché la sfida fra Trump e Harris è fatta soprattutto di costruzioni mediatiche

Articolo tratto dal numero di ottobre 2024 di Forbes Italia. Abbonati!

Ci siamo abituati a trattare gli Stati Uniti con il rispetto dovuto alla più antica democrazia del mondo. Le prossime elezioni americane sono tuttavia la dimostrazione della perdita di prestigio di quello che, fino alla fine del secolo scorso, era il modello di riferimento planetario. Il Partito repubblicano punta per la terza volta su Donald Trump. Dopo la vittoria ‘minoritaria’ del 2016 contro Hillary Clinton – prima donna ad affrontare la finalissima alle presidenziali, che perse pur prendendo quasi tre milioni di voti in più – Trump ha perso nel 2020 contro Biden, raccogliendo comunque quasi 80 milioni di voti. L’amministrazione Biden è stata particolarmente scialba e corrotta, soprattutto in pandemia, e ha palesato notevole arroganza guerrafondaia. Trump, che molto abbaia e poco morde in politica estera, aveva evitato escalation in Siria, dove Hillary aveva già promesso macelli, guadagnandosi un certo rispetto internazionale, soprattutto da parte di Putin ed Erdogan, uomini forti a lui affini.

Dopo l’attentato ‘dell’orecchio’, sulle cui interpretazioni molto potrebbe scriversi, i giochi sembravano fatti a favore dello sfidante, cosa che finalmente ha convinto il Partito democratico delle ragioni di coloro che da mesi chiedevano a ‘Sleepy Joe’ un passo indietro. Anticipare il dibattito presidenziale è stata la mossa decisiva nel progetto di cambiare cavallo per giocare una campagna elettorale meno scontata. Gli elettori democratici si sono così trovati offerta, nell’ambito di puri giochi di palazzo, una candidata donna, appena 60enne, che aveva dimostrato scarsissimo consenso nelle primarie del 2020, ma che, grazie a un imponente dispositivo mediatico, potrebbe anche fermare il quasi ottuagenario Trump. 

Trump vs. Harris, una sfida di apparenze

A un mese dal voto, dunque, la battaglia è in gran parte determinata dalla costruzione mediatica intorno ai due candidati, e i temi discussi dipendono più dall’immaginario che i due evocano piuttosto che dalle reali questioni che una potenza in crisi di egemonia dovrebbe affrontare. La raccolta del consenso dell’elettore medio, attraverso la solita strategia rassicurante, è stata consegnata ai candidati vicepresidenti.

I due usano ricette simili, mostrandosi compassionevoli con i perdenti dei processi sociali, quella middle America bianca che fatica a far tornare i conti a fine mese. Occorre ingannarla perché la festa della Corporate America, che garantisce al 10% della popolazione che conta di arricchirsi a spese del 90%, possa continuare. La politica dei tassi alti, presentata come risposta all’inflazione, volta in realtà a fiaccare le rivendicazioni salariali deprimendo l’occupazione, sembra aver avuto successo ed è comunque garantita dalla Federal Reserve. Solo Trump ha polemizzato blandamente nei confronti di Jerome Powell, presidente della Fed.

Invero, è interesse dei candidati glissare sull’economia politica della crisi di egemonia, ossia sul dominio antisociale delle multinazionali, da cui entrambi ricevono i miliardi che corrompono la democrazia americana (solo il vp di Trump ha simpatizzato con la politica antitrust Lina Khan). Vero, Musk è schierato sul fronte Trump e Soros su quello Harris, ma ciò non significa che la strategia di big tech e big finance abbandoni la postura bipartisan.

Le posizioni su Gaza e Ucraina

Per ragioni simili, a entrambi conviene assai poco affrontare il massacro di Gaza, una situazione che può denominarsi o meno genocidio per ragioni ideologiche, ma che certo costituisce una delle peggiori efferatezze della storia umana. Anche qui non bisogna farsi ingannare dai distinguo pelosi. L’aggressivo fronte sionista, ormai costituito più da cristiani massimalisti che da ebrei, può contare su un’organizzazione capillare, potentissima e ricchissima. È bipartisan e non bada a spese pur di cancellare dalla scena politica chi sostiene i ragazzi, forse addirittura in maggioranza ebrei, che provano a mobilitare i campus a favore della causa palestinese. Tanto Trump quanto Harris quasi certamente continueranno la criminale politica di armare la mano di Israele. Solo diversi tassi di ipocrisia spiegano narrazioni in parte diverse rispetto al comune stato di soggiogazione alle lobby.

Su Russia e Ucraina invece la sostanza sembra diversa. La polemica di Trump contro la Nato, volta a trasferirne l’intero costo sull’Europa, è chiave della politica isolazionista Make America Great Again. La politica è strutturale e va oltre il facile argomento elettorale contro la vicepresidente dell’amministrazione uscente. Occorre tuttavia sempre tenere presente che meno della metà degli elettori statunitensi ha un passaporto. La larga maggioranza non viaggia e ha idee vaghissime sul resto del mondo. Neppure il rischio del conflitto mondiale è così un tema chiave per vincere negli stati in bilico (salvo il Michigan, dove la comunità araba è significativa), la cui opinione pubblica non è certo quella che si respira nei campus universitari. Nondimeno, dire che sulla Russia i due candidati sono identici serve a spogliare Trump del solo punto di simpatia per l’elettorato più articolato e colto.

La partita ideologica

Dunque bene hanno fatto i dem a spostare la partita sul piano ideologico, scegliendo una donna di colore. Certo, è patetico dipingere Kamala, figlia di una bramina professoressa universitaria e di un importante economista marxista giamaicano atterrato su una cattedra a Stanford (la più ricca università statunitense), come modesta ragazza della classe media. Tuttavia l’operazione sembra per ora funzionare e il gap a favore di Trump, che continua a puntare sulla questione migranti, da affrontarsi con pugno ancor più duro e crudele di quanto già abbiano fatto tutte le amministrazioni precedenti (compreso Obama), pare sia stato colmato. Anche la polemica contro il woke e il politicamente corretto appare meno nuova rispetto al 2016, ma basta chiacchierare con bambinaie, giardinieri e meccanici, perfino a Berkeley, per capire che la principale arma trumpista potrebbe essere meno spuntata di quanto si voglia credere.  

Trump gode dell’appoggio della Corte Suprema che è riuscito a strutturare con una maggioranza di sei a tre. Tuttavia proprio la corte, con la giurisprudenza bigotta in materia di aborto, potrebbe danneggiarlo, regalando a Harris un consenso femminile molto più motivato rispetto a quello di cui (non) ha goduto Hillary Clinton. D’altra parte la fedeltà dem agli interessi di big pharma, conclamatasi in era pandemica, ha prodotto lo spettacolo inimmaginabile del figlio omonimo di Bobby Kennedy schierato con i repubblicani, dopo che Harris ha rifiutato di negoziare il suo ritiro da candidato indipendente, con sondaggi superiori al 3%.

Gli auspici italiani per le elezioni Usa

Un problema di Harris è che per Trump sarà facile dipingerla come crede, avendo Kamala sostenuto tutto e il contrario di tutto in California: dalla pena di morte quando era procuratrice generale alla concentrazione del capitale nella Silicon Valley da senatrice. Dalla nostra periferia non resta che augurarsi, con l’ottimismo della volontà, che, in caso di vittoria, Trump vada in continuità con la sua scorsa presidenza di pace, magari proprio per la sua fascinazione per gli uomini forti. Se vincesse Harris, invece, la speranza è che, sotto le pelle di una politica ambiziosissima che con grande razionalità è fin qui riuscita a sfuggire come un’anguilla a ogni presa di posizione rischiosa per la sua carriera, esista una donna che smetta di confondere le battaglie progressiste con l’arcobaleno e il politicamente corretto e che magari, cominciando dai migranti e da Gaza, provi a insegnare al mondo che si può restare umani.

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