Articolo tratto dal numero di gennaio 2025 di Forbes Italia. Abbonati!
Quella di Tyvak International è una storia del ‘new space’, il nuovo modo di approcciare lo spazio. Si potrebbe raccontarla in due parole: miniaturizzazione e servizi. Perché anche i suoi atti più recenti sono il decollo di un nanosatellite made in Torino diretto verso un asteroide e l’atterraggio di un colosso dell’aerospazio statunitense come Lockheed Martin, che ha perfezionato l’acquisizione di Terran Orbital Corporation, società di manufacturing di piccoli satelliti nella cui pancia opera Tyvak International.
“Adesso facciamo parte della famiglia Lockheed Martin”, esordisce Fabio Nichele, amministratore delegato dell’azienda. “Siamo onorati dell’interesse e del prestigio che comporta essere in questo grande gruppo”.
Le ragioni del takeover (Lockheed aveva già quote in Terran) riguardano la visione di ciò che il mercato chiederà. Per i dettagli è ancora presto; quello che invece si può raccontare subito è la crescita di un’azienda fondata dieci anni fa per cavalcare l’onda della miniaturizzazione delle tecnologie, anche di quelle spaziali. “Sviluppiamo missioni con piccoli satelliti”, spiega Margherita Cardi, responsabile programmi di Tyvak. “Aiutiamo il cliente a comprendere requisiti e bisogni, quindi lo accompagniamo fino alle fasi finali di test. Ci occupiamo del servizio di lancio, cerchiamo il vettore, andiamo fisicamente alla base per seguire l’integrazione sul razzo. L’ultima tappa, una volta rilasciato il satellite in orbita, è nella nostra sala controllo, per portare a termine la missione, qualsiasi natura abbia: osservazione della Terra, telecomunicazioni, internet of things, dimostrazioni tecnologiche. E il processo riguarda missioni sia istituzionali che commerciali”.
La storia di Tyvak International
Accade tutto a Torino, dove nel 2015 Tyvak International è nata. Oggi l’azienda ha una settantina di dipendenti e un fatturato attorno ai 10 milioni di euro. Ha scavato una nicchia, con il tempo diventata una navata. “Trattiamo nanosatelliti dal volume ridotto e con una massa compresa fra i 12 e i 20 chilogrammi”, continua Cardi, “ma arriviamo fino ai microsatelliti, che possono raggiungere i 300 chili. Sono comunque piccoli rispetto a quelli da due tonnellate, che hanno dominato il settore. La sfida, ovviamente, è garantire ottime performance pur con dimensioni ridotte: i risultati in orbita sono promettenti”.
Finora Tyvak ha costruito e lanciato 13 satelliti per clienti molto diversi, sia commerciali che istituzionali. Si parte da uno standard, quello dei cubesat, mattoncini da 10 centimetri per lato, che possono essere assemblati in volumi più ampi. “Non abbiamo limiti nel lavorare con forme e dimensioni differenti”, aggiunge Nichele. “Il nostro vantaggio è l’heritage tecnologico: abbiamo volato molte volte, disponiamo di una grande quantità di dati sulle nostre tecnologie”. In sintesi: sistemi e sottosistemi dei satelliti (pannelli solari, batterie, circuiti e gestione dell’assetto, per fare qualche esempio) restano quelli e sono affidabili. Il carico utile, in gergo payload, lo decide (in certi casi lo fornisce) il cliente, a seconda del tipo di missione. “Lavoriamo con i privati, nella maggioranza dei casi in due ambiti, telecomunicazioni e remote sensing. Significa avere a che fare con i parametri atmosferici, per esempio le previsioni meteo, con sistemi radio per la dimostrazione tecnologica in orbita e con applicazioni specifiche search and rescue per situazioni di emergenza”, racconta l’ad.
Dall’osservazione della Terra alla difesa planetaria
Sul fronte istituzionale, i concept sono ancora più vari: vanno da missioni come PhiSat-1 dell’Agenzia spaziale europea (Esa), una coppia di satelliti per l’osservazione della Terra, fino a Iperdrone, con l’Agenzia spaziale italiana, per effettuare manovre orbitali attorno a un target: un’attività propedeutica al cosiddetto in orbit servicing, cioè la fornitura di servizi oltre l’atmosfera, dal refueling alla manutenzione.
A costo zero, Tyvak ha anche contribuito allo Spei Satelles, il primo satellite del Vaticano, di supporto al Politecnico di Torino. E poi l’ultima, gloriosa impresa, questa volta interplanetaria, con Milani, cubesat in viaggio sulla sonda dell’Esa Hera, diretta verso un asteroide per una missione di difesa planetaria. “Milani è stato un salto di competenze”, racconta Cardi, “per fornire un cubesat a una missione scientifica nello spazio profondo, un ambiente radio non amichevole e ‘affollato’, in cui muoversi e mettere in comunicazione, tra i due asteroidi, la sonda madre e l’altro cubesat. E per raccogliere dati scientifici. Milani è il primo cubesat dell’Esa nello spazio profondo”.
Lo spazio nell’era della produzione in serie
L’intera attività di Tyvak sottende una convinzione, forse una visione: lo spazio del futuro non sarà più (solo) tailor made, fatto su misura. Lo standard modulare, in questo caso il cubesat, sta prendendo piede insieme con una nuova concezione del rischio. Che però non tutti, secondo Nichele, hanno abbracciato: “Nei decenni precedenti le attività spaziali erano ad alto rischio, per molti motivi. L’ambiente spaziale era poco conosciuto, prevedeva un’architettura non riparabile o mantenibile, a perdere. Oggi si possono fare cose molto interessanti con una tecnologia più contenuta, agile e veloce. E poco costosa. Le attività spaziali sono più accessibili e democratiche. Chi comprende questo rischio sa che può permettersi di perdere un satellite e lanciarne un altro. Costa meno spedire in orbita tre satelliti uno dopo l’altro, invece di uno solo che duri 12 anni”.
L’approccio industriale – produzione in serie e costi più bassi, piattaforme standard con diversi payload a bordo – è lo stesso che guida SpaceX ed Elon Musk. “L’Europa, e ancora di più l’Italia, è rimasta indietro di quattro o cinque anni rispetto agli Stati Uniti e il divario tecnologico, invece di ridursi, va allargandosi”, conclude Nichele. “Con la nostra casa madre, americana, siamo esposti a questo tipo di discussioni. Per il nostro Paese dobbiamo chiederci che cosa resterà nel 2026 dopo la bolla creata dall’iniezione di investimenti del Pnrr. Le aziende si sosterranno con le proprie gambe? Il divario tecnologico è ampio e non sarà il Pnrr a chiuderlo”.
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