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17 novembre 2025

Dagli stampi di ferro a F1 e MotoGP: la storia di Beta Utensili, azienda di quarta generazione da 250 milioni

L'azienda, nata nel 1923, ha sede in Brianza. Negli ultimi anni è cresciuta con l'acquisizione di diverse piccole e medie imprese
Dagli stampi di ferro a F1 e MotoGP: la storia di Beta Utensili, azienda di quarta generazione da 250 milioni

Matteo Novarini
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Matteo Novarini

È il 17 agosto 1975. Sul circuito dell’Österreichring è piovuto così tanto che il Gran Premio d’Austria è stato rimandato di tre quarti d’ora e poi interrotto a metà. Una macchina arancione avanza sotto il diluvio. Ha il muso rotto, ma il pilota esulta. Si chiama Vittorio Brambilla, ha 37 anni e ha appena vinto la prima e unica gara di Formula 1 della sua vita. Partito ottavo, ha rifilato quasi 30 secondi a James Hunt, secondo, e un minuto e mezzo a Niki Lauda, partito in pole position. Solo dopo il traguardo si è concesso una distrazione: mentre cominciava a festeggiare, è finito in testacoda contro una barriera.

A distanza di 50 anni, molti appassionati di motori ricordano ancora la vittoria di Brambilla. La sua macchina si chiamava Beta Utensili March. La March era una scuderia inglese nata alla fine degli anni ‘60. Beta Utensili, lo sponsor, era l’azienda brianzola a cui si doveva il colore arancione. “Fu Brambilla ad avvicinare la mia famiglia”, ricorda Roberto Ciceri, oggi presidente e amministratore delegato dell’impresa fondata dal suo bisnonno. “Ci conosceva perché aveva un’officina di autoriparazione dove usava i nostri prodotti. Si presentò in azienda e chiese se fossimo interessati a sponsorizzare una macchina di Formula 3, un campionato minore”. I Ciceri accettarono e negli anni successivi accompagnarono Brambilla fino alla F1. “Oggi si dà per scontato che tutte le squadre e gli atleti di alto livello abbiano sponsor. All’epoca non era così. Perfino in Formula 1 c’erano scuderie che si autofinanziavano. La Hesketh di Hunt, che arrivò secondo in quella gara in Austria, era finanziata da un lord inglese. Brambilla e i miei familiari, probabilmente in modo inconsapevole, sono stati pionieri nel marketing sportivo”.

Quando Brambilla avvicinò Beta, racconta l’ad, “l’azienda era piccola. Per farla crescere, cercavamo un’attività di comunicazione di grande risonanza”. La scelta cadde sui motori anche per passione familiare e prossimità geografica: “La nostra sede è a Sovico, appena a nord del Parco di Monza. Nei giorni del Gran Premio, con le finestre aperte, si sente il suono dei motori”.

Brambilla Beta F1
Vittorio Brambilla a bordo della sua Beta March (courtesy gruppo Beta).

La storia di Beta

Beta, in realtà, è nata a Erba, in provincia di Como. Lì Alessandro Ciceri, impiegato in un’azienda di coltelli, nel 1923 fondò la stamperia Alessandro Ciceri e Figli, specializzata in stampi di ferro e acciaio. Fu il figlio, Damiano, a trasferire l’attività a Sovico nel 1939. E fu sempre lui a cambiare il modello di business. Fino ad allora Beta era stata fornitore conto terzi: lavorava, ad esempio, alle staffe per i cavalli dell’Esercito e con aziende come Fiat, Alfa Romeo, Gilera e Beretta. Divenne invece produttore di utensili destinati direttamente alla distribuzione. Prima nelle ferramenta di Milano, poi via via in quelle di tutta Italia. Fu tra le prime imprese del settore a progettare e produrre in Italia, quando l’utensileria viveva soprattutto di importazioni da Germania e Inghilterra. “Fu allora che mio nonno decise che ci voleva un marchio”, dice Ciceri. “Scelse Beta, ed è una fortuna che ho ereditato: è identificabile, facile da usare nella pubblicità e semplice da pronunciare in qualsiasi lingua”.

Negli anni ‘70, complice la difficoltà di reperire manodopera, Beta portò la produzione fuori dalla Brianza: prima nel Lodigiano, poi in Abruzzo. L’espansione internazionale cominciò nel 1980, con l’apertura delle filiali in Francia, Regno Unito, Paesi Bassi, Spagna, Polonia e Ungheria. Oggi sono dodici nel mondo: nove in Europa, tre in Cina, Brasile e Stati Uniti. 

Il gruppo Beta ha chiuso il 2024 con ricavi per 252 milioni di euro, di cui 99 riconducibili alle esportazioni. Ha dieci stabilimenti industriali e oltre 1.000 collaboratori. Produce utensili per specialisti della meccanica, della manutenzione industriale e dell’autoriparazione, abrasivi, prodotti per l’installazione elettrica e la saldatura, scarpe antinfortunistiche, abbigliamento da lavoro, arredamento modulare per officina. L’attuale ad è la quarta generazione della famiglia fondatrice. La quinta, rappresentata dal figlio Alessandro, è già coinvolta nell’impresa. Negli ultimi anni, però, la storia di Beta è stata anche quella di un passaggio generazionale complesso.

Una transizione delicata

“Tra il 2010 e il 2015 la famiglia valutò un’uscita dal capitale”, racconta Roberto Ciceri. “Io ero l’unico a voler proseguire nella gestione e nella proprietà. Ma eravamo quattro fratelli e quattro cugini, ognuno con un ottavo delle quote. Dal punto di vista finanziario, non ero in grado di rilevare tutte le azioni”. Ciceri cominciò allora a cercare partner. È convinto che in quel momento gli tornò utile un’esperienza di tanti anni prima: negli anni ‘80, dopo la laurea in ingegneria industriale e l’mba alla Columbia University, lavorò per circa un anno in Salomon Brothers, all’epoca una delle più importanti banche di investimento di Wall Street. Solo in seguito entrò nell’azienda di famiglia, “cominciando con i turni alle sei di mattina nel reparto di stampaggio a caldo”. Salomon Brothers “si occupava di operazioni molto grandi”, ricorda. “Io ero l’ultimo arrivato, perciò facevo soprattutto ‘number crunching’, cioè conti su conti. Ero un po’ la cavia nella gabbietta. Però l’esperienza nel mondo delle fusioni e delle acquisizioni si è dimostrata utile”.

Alla fine Ciceri si accordò con Tamburi Investment Partners (Tip), la banca di investimento e d’affari fondata da Giovanni Tamburi. “Ho scelto Tip perché era un investitore con competenze industriali e di lungo periodo. Ci dava una prospettiva diversa rispetto a un fondo di private equity classico e lasciava risorse in azienda per sostenere un percorso industriale. E poi Tip è abituata a lasciare il controllo agli imprenditori: io sono partito con una quota di minoranza, che però poi è salita fino al 51% con il raggiungimento di alcuni obiettivi”.

Falsi miti

Forse anche per questa difficile transizione Ciceri si è convinto che, come disse in un’intervista alcuni anni fa, “l’azienda non è un diritto dinastico. È un’attività da gestire con attenzione, un animale vivo. Servono un certo temperamento e certe competenze. Non è detto che queste cose si trovino in più generazioni della stessa famiglia. C’è un motivo se un pilota di aereo non tramanda il brevetto al figlio. Valuto mio figlio sulla base dei risultati come qualsiasi altro manager, anche se magari sono un po’ più felice quando mi dimostra le sue capacità”.

Non stupisce, allora, che Ciceri non ami nemmeno il mito della superiorità della conduzione familiare rispetto a quella manageriale: “Il settore e le dimensioni possono favorire un modello o l’altro”. Anche se nel settore degli utensili, dice, “paga essere veloci e flessibili, prendere decisioni in fretta senza dover passare per comitati. Se sfruttata bene, l’agilità è un grosso vantaggio. Se usata male, porta al caos. La deriva napoleonica è sempre in agguato”.

L’espansione

Negli ultimi anni Beta è cresciuta attraverso l’acquisizione di aziende. “È stata un’esigenza”, spiega l’ad. “Il nostro obiettivo era entrare in nuovi settori. A volte lo si può fare con le proprie capacità e il proprio marchio. Altre volte bisogna acquisire uno specialista, con la sua storia, le sue competenze, la sua cultura”.

Finora Beta ha comprato sei aziende, tutte con ricavi inferiori ai 30 milioni di euro all’anno. “Mirare ad acquisizioni più grandi sarebbe stato presuntuoso”, dice Ciceri. “Non volevamo metterci in condizioni di sofferenza finanziaria. E poi dovevamo fare palestra, imparare come si integra un’azienda nella propria. Farlo con imprese più piccole è più semplice”. Le operazioni sono state tutte in Italia. “È bello dire di avere comprato un’azienda in Nuova Zelanda, però poi bisogna gestirla. Nel nostro settore non si prendono tre decisioni all’anno, ma 30 al giorno. Poter essere sul posto in una o due ore di macchina ha un impatto sui risultati”. Ora, secondo l’ad, i tempi potrebbero essere maturi per operazioni di portata maggiore: “Valutiamo acquisizioni di aziende fino ai 100 milioni di ricavi. Per considerarne anche oltre quella soglia, dovrebbe presentarsi l’occasione della vita”.

Il margine di sviluppo è ancora ampio. Beta è in tre settori distributivi: fornitura industriale e ferramenta, autoriparazione e distribuzione di materiale elettrico. In Italia hanno un valore complessivo stimato tra i 12 e i 15 miliardi di euro. In Europa la sola fornitura industriale vale 70 miliardi, l’autoriparazione e la distribuzione di materiale elettrico tra i 35 e i 40. “Non possiamo guardare a quei mercati per intero”, precisa Ciceri. “Una parte, per esempio, è costituita dalle materie prime, in cui non entreremo mai. Però possiamo guardare al 40% circa”.

Un’anomalia italiana

L’espansione compiuta da Beta negli ultimi anni è in controtendenza con tante storie italiane. A giugno la produzione industriale del Paese è salita per la prima volta dopo 26 mesi consecutivi di calo. Viene naturale chiedersi se casi come quelli di Beta e di altre aziende possano insegnare qualcosa. “La verità è che non si può imparare quasi niente”, dice Ciceri. “Noi creiamo nuovi mercati quando inventiamo qualcosa di nuovo. Capita, ma nella maggior parte dei casi cresciamo perché ci sostituiamo ad altri. Insomma, conquistiamo una fetta più grande di una torta che diventa leggermente più piccola”.

L’unica lezione, aggiunge, può essere rappresentata da alcune iniziative. Ciceri rivendica, in particolare, quelle a sostegno delle famiglie e della natalità. Molti giornali hanno raccontato dell’erogazione ai dipendenti di un contributo biennale fino a 8mila euro lordi per la nascita o l’adozione di ciascun figlio. L’azienda cita anche la possibilità di smart working completo per le future madri a partire dal settimo mese di gravidanza, copre il 100% del costo dei libri di testo per gli studenti di medie e superiori, eroga 500 euro per l’acquisto dei testi universitari e assegna premi allo studio per meriti scolastici e universitari.

“La natalità è uno dei più gravi problemi italiani”, dice Ciceri. “La nascita di un bambino è una gioia personale, ma un grosso problema economico e logistico. Stupisce che vengano destinate così poche risorse a un problema così grande. Forse il sistema dovrebbe trarre ispirazione dalle iniziative responsabili di alcune aziende”.

Innovazione nascosta

Beta Speed Rs Moto 2
Beta è sponsor del team Speed Rs della Moto 2 (courtesy Beta Utensili).

Nel frattempo, nemmeno un’azienda di utensili può fare a meno di investire in tecnologia. “Il nostro è un settore vecchio quanto la specie umana. Ma c’è tutto un mondo di tecnologie a supporto”. Ciceri cita ad esempio l’uso dell’intelligenza artificiale nella catena di fornitura, nella pianificazione, nell’amministrazione, nelle ricerche di marketing e di mercato. “Poi c’è il design. Tra i nostri prodotti ci sono i sistemi di arredo modulare per officine, perciò abbiamo sviluppato tecnologie di simulazione, maschere 3D, esperienze immersive”.  

Anche lo sport è un vettore di innovazione. Dai tempi di Brambilla e della March, il legame con le competizioni non si è mai interrotto. E non solo perché in sede c’è “una sala riunioni con un’auto di Formula 1 al centro di un tavolo e oltre 200 caschi autografati da piloti”. Nonostante abbia abbandonato la Formula 1 a livello di comunicazione ufficiale, anche per via dei costi giganteschi delle sponsorizzazioni, Beta collabora con molte delle più importanti squadre professionistiche di ciclismo e con il mondo della nautica. Ed è sempre presente nei motori. A cominciare dalla MotoGP, dove lavora con quasi tutte le scuderie. “Realizziamo prodotti che milioni di persone vedono tutti i weekend, senza sapere che sono nostri. Penso ai mobili e alle cassettiere dentro i box. Oppure i carrelli in pista, con pneumatici riscaldati e compressori, che gli addetti spingono sulla griglia di partenza e rimuovono appena prima del via”.

La presenza nello sport alimenta, per esempio, la ricerca sui materiali. “Le collaborazioni con il mondo delle corse – come quelle con l’aeronautica, per esempio – ci obbligano a considerare esigenze particolari di leggerezza e di ingombro. Dover produrre una chiave in titanio destinata a una navicella spaziale o a una moto che viaggia a 300 chilometri all’ora impone standard di affidabilità altissimi”. A volte le corse portano anche spunti per nuovi prodotti. “È stata la MotoGP a chiederci arredi integrati. Le squadre hanno bisogno di strutture da montare e smontare molto in fretta, dove tutto si possa trovare subito”. Ne è nata “una soluzione che segue la stessa filosofia delle cucine integrate che si trovano in qualsiasi casa. Poi abbiamo cominciato a venderla anche al di fuori delle corse”. Lo sport, dice Ciceri, “è un’occasione di business, oltre che di prestigio, esperienza, immagine e comunicazione. Nella maggior parte del tempo mettiamo utensili nelle mani di persone che lavorano davanti a una macchina, che riparano o costruiscono qualcosa. Lo sport dà una mano di vernice più fresca”.

Beta sala caschi
Una sala riunioni nella sede di Beta a Sovico, in Brianza. Al centro, una Jordan di Formula 1, scuderia con la quale Beta ha collaborato (courtesy Beta Utensili).

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