A Luciano Balbo, nato a Milano nel 1949, vanno riconosciute plurime paternità. La più recente è quella dell’impact investing in Italia. E prima ancora, è stato fra i pionieri – nel nostro Paese – del private equity e della filantropia attiva attraverso Fondazione Oltre (2002), prima fondazione italiana di venture philanthropy. Da una costola è nato Oltre Venture, fondo di impact investing che investe in progetti imprenditoriali pensati per creare valore sia per gli azionisti, sia per la società. Nella costellazione di Oltre Venture figurano il centro medico Santagostino, Wonderful Italy, Sfera Agricola, TrapView, Erbert, IRaiser. In tutto, le aziende sono venti.
Luciano Balbo è il quindicesimo ospite di Fattore R. Riscrivere per Rinascere. Incarna la filantropia sostenibile di contro alla filantropia-bancomat: i progetti sono ideati per produrre un profitto così da sostenersi autonomamente, restituendo i fondi più l’inflazione.
In Oltre Venture, partite dai bisogni sociali creando l’attività d’impresa che li possa soddisfare. La gerarchia dei bisogni è cambiata con la pandemia?
Continuiamo a concentrarci sui bisogni sociali di base. Si va da una sanità accessibile all’agricoltura. Nel caso specifico, penso a Sfera Agricola, la più grande serra idroponica hi-tech italiana, che permette di realizzare un prodotto di qualità e allo stesso tempo di corrispondere retribuzioni giuste a chi lavora: la riorganizzazione industriale fa sì che si possa arrivare a uno stipendio di 1.500 euro mensili, anziché i due euro l’ora, come talvolta capita. Poi abbiamo iniziative nel mondo della formazione, consapevoli della mancata corrispondenza, in molti casi, tra un pezzo della formazione curricolare e le esigenze del mercato.
State avviando un modello innovativo di assistenza domiciliare. Di che cosa si tratta?
Abbiamo acquisito l’azienda Aqua, che rientra nella nostra holding Home Care, che fa, per l’appunto, assistenza domiciliare. Il principio chiave sta nell’affiancare l’assistenza privata a quella pubblica, impiegando tecnologie che la rendano accessibile anche da un punto di vista dei costi. Usiamo le tecnologie più aggiornate a disposizione affinché i servizi migliorino le modalità di intervento.
Che è un po’ il principio di Santagostino.
Vero, però in questo caso l’assistenza medica si salda con un aspetto sociale.
Avete 20 aziende in portafoglio: crescerete ulteriormente?
Una precisazione. Cinque aziende, da sole, hanno raccolto il 60% dei nostri investimenti. Poi ne abbiamo di più piccole, che però reputiamo meritevoli. Altra cosa: vi sono aziende come Santagostino, in cui siamo azionisti rilevanti e talvolta di controllo, nel senso che abbiamo co-fondato l’azienda con l’imprenditore. In altre siamo azionisti di minoranza. Detto questo, in futuro progettiamo di fare meno investimenti, ma più grandi, così da concentrare i soldi e l’attenzione su aziende in cui avremo un ruolo di peso. Siamo molto co-imprenditoriali, nel senso che non gestiamo l’azienda – non ne avremmo neppure le capacità -, però condividiamo il processo. Per questo abbiamo bisogno di tempo e di testa e, se abbiamo troppe cose in portafoglio, disperdiamo tempo e testa.
Il vostro fondo più recente vale 100 milioni.
Sì, ed è preceduto da quello, già totalmente investito, da 44 milioni. Per i 100 milioni abbiamo un primo closing entro il mese di giugno e contiamo di arrivare a 80/100milioni nella primavera 2022.
Investimenti tutti italiani?
Il Fondo Europeo di Investimenti è straniero. Per il resto, i soci sono tutti italiani e credo che si andrà in questa direzione per la parte restante del fondo, perché il nostro progetto è molto italiano. Il tipo di prodotto che proponiamo è adatto a un investitore italiano che voglia avere un ritorno finanziario, ma anche un impatto sociale positivo.
La formazione è al centro degli interessi di Oltre Venture. Con il Pnrr sono in arrivo quasi 32 miliardi da allocare a istruzione e ricerca. Come e dove finirà il fiume di miliardi ? Che idea si è fatto?
Da italiano, confesso che ho sempre timori sulle modalità di investimento dei soldi. Comunque mi sembra che ci sia una giusta focalizzazione sugli ITS, che tra l’altro sono pochi, quindi mi piace l’iniziativa di sostenerli. A dire il vero, anche noi progettiamo di fare qualcosa in questa direzione. Gli ITS hanno però un limite, cioè quello di essere una struttura molto burocratica, sono una fondazione per la quale ci vogliono molti partner. Purtroppo c’è sempre questa idea che burocratizzando possiamo controllare.
Mentre sburocratizzare sarebbe uno dei bisogni sociali.
I soldi pubblici vanno controllati, sono d’accordo, ma non con processi formali. Il Recovery Plan sarà la prova del nove della nostra capacità di far bene. E qui includo anche i privati, perché talvolta un atteggiamento non adeguato del settore pubblico – e non parlo di corruzione, ma di modalità operative – ha contagiato anche quello privato. Ciò detto, il Recovery Plan andrà ad agire su aree di grande bisogno. Spetterà allo Stato e a chi riceverà quei soldi raggiungere gli obiettivi.
In tema di Stato. La convince il “governo dei migliori”?
Parto da un dato positivo: con questo Governo si è ridotto il rumore di fondo. Un anno fa qualsiasi decisione generava discussioni lunghissime senza un particolare senso. Il governo sta facendo le cose più importanti – il piano vaccinale, per esempio – e c’è ampio consenso. La prova del fuoco si avrà quando arriveranno i nodi. Siamo un Paese che mi ricorda un immenso videogioco fatto di talk show dove regna il narcisismo, le persone dicono la propria e i giornalisti aizzano gli uni contro gli altri, provocando. Il tutto fa audience, ma mancano certi livelli di profondità.
Lei ha in portafoglio istituzioni impegnate nella formazione di giovani fra i 18 e i 30 anni. Le piace l’idea della dote ai 18enni?
L’idea di dare ai giovani un piccolo patrimonio iniziale può avere senso. Penso, tuttavia, che i veri problemi dei giovani siano il lavoro e i salari in entrata troppo bassi. Oggi i giovani laureati prendono 800 o 1000 euro. Bisognerebbe trovare il modo di pagarli di più. Ed è il motivo per cui alcune aziende faticano a trovare capitale umano. Non mi sorprende vedere ragazzi che stanno a casa coi genitori fino a 30 anni. E aggiungo: rovinandosi la vita. Il Paese è incastrato su questo, poche opportunità ai giovani e basse remunerazioni.
Come si passa da una laurea in fisica al private equity e poi a Oltre Venture?
La fisica fa parte del mio percorso formativo, ma non professionale. Ho lavorato 6 mesi come fisico in università, poi sono entrato in azienda, arrivando al management. La folgorazione sulla via di Damasco è arrivata quando sono riuscito a entrare nel mondo del private equity, che è poi stata la mia attività professionale più importante. La mia generazione è stata tra le più favorite in tema di opportunità. C’è chi le ha colte e chi no, ma una cosa è certa: la generazione del dopoguerra ha avuto davanti a sé tante occasioni. Io ho avuto il merito di coglierle, ma ho anche sfruttato un momento facile, e questo va riconosciuto.
Cosa ha rappresentato per lei la fase del private equity?
Una scelta di vita, me lo potevo permettere. Mi ha consentito di far leva sulle mie relazioni e capacità di investitore, creando qualcosa di positivo per la società. O almeno, questo è sempre stato il mio auspicio.
Parla di “capacità di investire” nel senso che esiste l’istinto dell’investitore? Possiamo parlare di talento innato?
Mi piace comparare chi fa attività nel private equity e nel venture capital a un decatleta. I migliori investitori che ho incontrato sono figure poliedriche: magari non sono numeri uno in niente, però possono offrire prestazioni di qualità in tante cose. Devono capire il marketing e la finanza, avere buone abilità di relazione, devono avere ampio spettro di competenze e tutte di alta qualità. Questo a differenza di chi, magari, eccelle nella ricerca o nel marketing, cioè è molto verticale.
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