Articolo tratto dal numero di luglio 2021 di Forbes Italia. Abbonati!
“Non ho uno sport che pratico in maniera regolare, faccio male un po’ di tutto. Provengo da una famiglia contadina, ho imparato presto a non desiderare il superfluo, che nessuno ti regala niente, e che la terra ti rimette in equilibrio. Coltivo l’orto: curare le piante, vederle crescere e raccogliere i frutti mi dà un senso di speranza, e placa un po’ il mio carattere inquieto. A volta basta una canzone a mettermi di buonumore, adoro la musica, tutta… quella che mi piace. Adoro Vasco Rossi, è un mio amico, mi piace la sua musica e il suo essere schivo. La mia grande passione: il cinema (mi sono laureata in storia del cinema francese). Sono sposata con un prof di musica di scuola media da 41 anni, abbiamo una figlia che da anni vive e lavora a Bruxelles (sic!). Detesto la mondanità e le cene in cui ‘si conosce gente’. Chi ha influenzato di più la mia vita professionale? Ettore Mo, a Grozny fine dicembre 1995. Lui era inviato per il Corriere, io per Mixer. Una sera, dopo una giornata terribile, mentre facevamo il resoconto lui buttò lì ‘voglio fare un racconto senza aggettivi’. Questa frase mi frullò in testa a lungo… e poi nel tempo è diventata la mia ricerca di linguaggio. Sono spesso tormentata dal dubbio di non fare abbastanza, e non abbastanza bene”.
Ecco, questa è Milena Gabanelli, la giornalista italiana più nota, l’icona del giornalismo d’inchiesta che non guarda in faccia nessuno, raccontata da Milena Gabanelli. Quella che segue, invece, è l’intervista che ha rilasciato a Forbes Italia.
Perché si fa sempre meno giornalismo d’inchiesta?
Perché richiede tempo, e verifiche sul campo, e questo ha un costo. Le testate possono permettersi sempre meno quello che non puoi fare solo al telefono. Se l’inchiesta è televisiva occorre aggiungere il costo delle trasferte per documentare con le immagini, raccogliere le interviste, e quindi può permetterselo solo il servizio pubblico (ma anche qui si fa sempre meno). Occorre aggiungere i rischi legali: in Italia è consuetudine fare cause temerarie in cui si chiedono risarcimenti milionari, e ci vogliono anni per arrivare a sentenza. Alla fine resta Netflix, che però tratta i grandi scandali che hanno un mercato internazionale, non certo questioni legate alla corruzione di un sindaco di provincia, dei trafficanti di mascherine farlocche o dell’inquinamento delle acque da parte di una azienda veneta.
Che impatto reale ha la pubblicità sul modo di fare informazione?
Sul ‘modo’ non ha nessun impatto, lo ha sui ‘contenuti’. A tenere in piedi una testata sono le inserzioni delle grandi aziende petrolifere, i marchi del lusso, dell’industria alimentare, perché il giornale lo comprano in pochi, e l’informazione online la trovi gratis. Pochi sono disponibili a pagare un abbonamento. Lo stesso discorso vale per le tv: perdere uno sponsor importante incide pesantemente sul budget. E gli sponsor lo sanno. Quindi non solo è meglio non occuparsi di questioni che li riguardano, ma devi anche accontentarli parlando bene di loro, con interviste agli amministratori delegati finalizzate a soddisfare il loro ego, o a pubblicizzare per esempio progetti green inconsistenti, che adesso vanno di gran moda.
Ci si informa sempre più sui canali digitali, ma i bilanci si fanno ancora con la carta. Cosa deve succedere perché l’editoria non abbia più bisogno di sostegni?
Anche durante i tempi d’oro della carta il sostegno della pubblicità era necessario, per i canal digitali è indispensabile, anche se la pubblicità non basta a ripagare i costi, per questo sono pieni di contenuti sponsorizzati. Un presidio online di una testata importante impiega almeno una trentina di persone, sempre più spesso collaboratori pagati una miseria ad articolo, da confezionare magari in mezz’ora. La differenza possono farla gli abbonamenti, ma per invogliare gli utenti l’editore deve avere il coraggio di investire sulla qualità delle notizie, in tecnologia e formazione. Nel mentre però deve essere pronto a perderci. E francamente non ne vedo tanti.
È immaginabile in Italia un futuro solo di editori puri?
Se per ‘editore puro’ intendiamo qualcuno che non ha altri interessi che vendere il suo prodotto informativo, è immaginabile piuttosto un consorzio di giornalisti, dove tutti sono motivati perché ci mettono una quota, e dicono: “Signori volete un’informazione indipendente e libera dai ricatti della pubblicità? Abbonatevi!”. Come ha fatto Mediapart, tanto per fare un bell’esempio esempio europeo. Diversamente hai sempre lo stesso problema. Jeff Bezos è l’editore del Washington Post. Certamente il giornale non ha difficoltà finanziarie visto che è l’uomo più ricco del mondo, ma non credo che possa liberamente criticare le politiche di Amazon.
Quale è stato il cambiamento più grande nel mondo dell’informazione con l’esplosione dei social?
La possibilità per tutti i cittadini di segnalare, testimoniare, commentare qualunque fatto. Quindi un grande arricchimento, al tempo stesso tante fake news. Diciamo che sono due mondi che si alimentano a vicenda ma non dialogano, infatti i giornalisti, pur avendo tutti i loro profili social, dove pubblicano i loro articoli, se ne guardano bene dal confrontarsi con i commenti sulla pagina. Invece bisognerebbe farlo, anche se è davvero faticoso, e spesso rivoltante.
Nuove tecnologie digitali come l’Hbbtv e offerte crescenti di canali tematici fruibili su device diversi: la tv tradizionale sta arrivando al capolinea?
Non credo, la tecnologia è più veloce della capacità di apprenderla a una certa età. Visto che il mondo non mi pare stia ringiovanendo, che le pensioni sono basse, i canali tematici hanno un costo e il canone al servizio pubblico comunque lo paghi, credo proprio la tv generalista avrà lunga vita.
Si occupa da tempo non sospetto di sviluppo sostenibile. La politica cerca di imbellettarsi con il green, la finanza pure. È ipocrisia opportunistica o qualcosa si muove davvero?
Tutte e due le cose: da una parte c’è un problema reale e drammatico, e la politica è costretta a fare interventi a sostegno di una economia circolare e più ecologica, dall’altra siccome cresce la consapevolezza ambientale, imprese e finanza cavalcano il greenwhashing.
Se dovesse fare una delle sue inchieste-senza-pietà sullo stato dei media in Italia, dove guarderebbe più a fondo?
L’esempio di come funziona il Paese nella scelta della sua classe dirigente è riflesso nel maggior produttore di informazione: la Rai. Il suo ruolo è enorme nella formazione di consapevolezza dei cittadini, ma le nomine dei sui dirigenti non passano dai risultati prodotti, cadono quasi sempre su chi è più abile a passare il tempo ad inanellare conoscenze. Ecco, cercherei, senza pietà, di valutare, uno per uno, i risultati oggettivi prodotti dai prossimi vertici Rai.
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