Il 5 maggio 1998, sei studenti della Cornell University pubblicarono in rete un documento di 23 pagine: il progetto finale per il corso di analisi finanziaria del professor Charles Lee. Il compito era applicare ciò che avevano imparato in tre mesi di lezioni ai rendiconti finanziari di una società. I sei avevano scelto la Enron, una compagnia energetica texana che in due anni era passata dal 94esimo al 27esimo posto nella classifica delle più grandi aziende statunitensi e da tre dominava la classifica di Fortune delle imprese più innovative d’America. Il suo fatturato cresceva di decine di punti percentuali all’anno. Era, come ha scritto il Wall Street Journal, “la beniamina di Wall Street”.
Eppure ai sei studenti, come ha raccontato uno di loro al New Yorker, “sorsero molte domande”. Il gruppo scoprì che la Enron aveva adottato una strategia molto più rischiosa rispetto alle sue concorrenti e sospettava che la compagnia “stesse manipolando i guadagni”. Concluse che il prezzo delle sue azioni – 48 dollari – era eccessivo. La raccomandazione era di vendere.
Forse nessuno lesse il lavoro dei ragazzi della Cornell, forse nessuno gli diede credito. Il titolo continuò a salire per altri due anni, fino a superare i 90 dollari, e all’inizio del 2001 la Enron era la settima azienda degli Stati Uniti. Solo tra la primavera e l’estate seguenti il resto del mondo si rese conto di una delle più grandi truffe nella storia di Wall Street. Una saga di avidità, crimine e presunzione che si concluse, il 2 dicembre 2001, con una bancarotta tra le più grandi della storia. Uno scandalo che portò a decine di condanne, lasciò senza lavoro 20mila persone e mandò in fumo miliardi di dollari di fondi pensione.
The smartest guys in the room
La storia della Enron era cominciata 16 anni prima a Houston, con la fusione tra la Houston Natural Gas e la InterNorth, due compagnie energetiche di medie dimensioni. Il fondatore, Kenneth Lay, era il figlio di un pastore battista del Missouri. Durante gli anni di Reagan era diventato un profeta della deregolamentazione del mercato energetico e uno degli industriali con più influenza su Washington. Aveva rapporti con politici democratici e repubblicani ed era, soprattutto, amico intimo della famiglia Bush. Nel 1992 fu a capo del comitato per la rielezione alla presidenza di George H. W. Bush. E quando il figlio George W., che chiamava Lay “Kenny boy”, corse per la Casa Bianca nel 2000, la Enron fu tra i suoi principali finanziatori e gli mise a disposizione un jet aziendale.
Nel 1990 Lay scelse come braccio destro Jeff Skilling, un consulente della McKinsey con cui aveva lavorato tre anni prima. Skilling trasformò la Enron: da una compagnia energetica tradizionale a una sorta di Borsa del gas naturale, che trattava l’energia come uno strumento finanziario da scambiare, al pari di azioni e obbligazioni.
Il libro The Smartest Guys in the Room: The Amazing Rise and Scandalous Fall of Enron (“I tipi più furbi nella stanza: la straordinaria ascesa e la scandalosa caduta della Enron”), dei giornalisti Bethany McLean e Peter Elkind, descrive Skilling come un manager con una concezione darwiniana del mondo. Una visione che si concretizzò nel Performance review committee (Prc): un processo in cui ogni dipendente veniva valutato dai colleghi con un punteggio da 1 a 5. Il 10% di impiegati che otteneva i giudizi peggiori veniva licenziato.
I beniamini di Wall Street
Negli anni ’90 la Enron si allargò in breve dal gas naturale a settori come l’elettricità, l’acqua, addirittura la banda larga e la carta. I suoi progetti di espansione internazionale – dalle concessioni idriche in Inghilterra e Argentina alla costruzione di centrali in India e in Brasile – contribuirono a far crescere il fatturato a un tasso medio del 65% annuo tra il 1996 e il 2000. Tra il 1999 e il 2000, in particolare, le entrate passarono da 40 a 101 miliardi di dollari. Fino a poche settimane prima della bancarotta, la Enron si dichiarava convinta di potere raddoppiare quella cifra per il 2001: con un fatturato di circa 200 miliardi, sarebbe stata la seconda azienda d’America, dopo Walmart.
Il titolo seguiva lo stesso andamento a Wall Street. Il valore delle azioni aumentò in modo quasi ininterrotto tra la seconda metà degli anni ’90 e l’inizio del XX secolo. Perfino nel 2000, l’anno dello scoppio della bolla delle dot com, il titolo salì dell’87%, contro il -10% della media dell’indice Standard & Poor’s 500.
Un castello di carte
Eppure già nel 1999, ha scritto la giornalista Mimi Swartz sul Texas Monthly, a Houston cominciò a circolare una voce: la Enron non era che “un castello di carte”. Quella frase “si sentiva ai distributori d’acqua delle banche del centro, o alle cene con ospiti che lavoravano per la concorrenza. In genere, chi pronunciava quelle parole scuoteva la testa con l’aria di chi ne sa, ma è abituato a essere ignorato”.
Quel castello di carte, come hanno rivelato indagini, libri e documentari sul caso, si fondava su alcuni stratagemmi. Uno si chiamava mark-to-market ed era un sistema di contabilità adottato, in genere, dalle società di trading finanziario. In breve, prevede che, quando un contratto viene sottoscritto, i ricavi attesi vengano subito messi a bilancio. “In pratica, i dirigenti dicevano: ‘Tra dieci anni venderemo l’energia di questo impianto per X dollari al chilowatt’. E non c’era nessun modo di dimostrare che sarebbe stato davvero così”, ha sintetizzato l’ex dirigente della Enron Mike Muckleroy nel documentario candidato all’Oscar Enron – L’economia della truffa.
La Enron investì, per esempio, in una centrale da miliardi di dollari in India e registrò le entrate che pensava di realizzare negli anni successivi. Soldi che, in realtà, non arrivarono mai: gli smartest guys in the room non avevano calcolato che gli indiani non potevano permettersi di comprare quella energia. Nel complesso, l’investimento fece perdere alla Enron circa 900 milioni di dollari.
Un altro stratagemma – il più complicato – era l’uso delle special-purpose entity (s.p.e.), o società di progetto. Il giornalista e sociologo Malcolm Gladwell lo ha spiegato così sul New Yorker: “La vostra azienda non se la passa bene. Se chiedete a una banca un prestito da 100 milioni di dollari, quella banca vi imporrà un tasso di interesse altissimo, o non ve lo concederà affatto. Avete però in mano alcune concessioni petrolifere che, nei prossimi cinque anni, frutteranno quasi di sicuro 100 milioni di dollari. Allora le cedete a una s.p.e. che avete costituito con investitori esterni. La banca presta quindi i 100 milioni alla s.p.e., che li gira a voi”.
All’epoca, queste operazioni non dovevano essere registrate in bilancio. “Una società può così raccogliere capitale senza indebitarsi. E poiché la banca è quasi certa che le concessioni genereranno i soldi per ripagare il debito, è disposta a concedere un tasso di interesse basso”.
La Enron adottò il sistema delle s.p.e., che era legale e molto diffuso. Ma introdusse un paio di varianti: trasferiva a queste società asset molto meno affidabili delle concessioni petrolifere e, soprattutto, non coinvolgeva investitori esterni. Le s.p.e., al contrario, erano guidate da dirigenti della stessa compagnia. “La Enron non vendeva parti dell’azienda a entità esterne, ma a se stessa”, ha scritto Gladwell. “Una strategia che non era solo discutibile dal punto di vista legale, ma anche straordinariamente rischiosa”.
“Brucia, piccola, brucia!”
La contabilità creativa, però, non sempre bastava a raggiungere obiettivi trimestrali che il dipartimento di Giustizia americano ha definito “irrealistici e irraggiungibili, in linea con le aspettative degli analisti e non con risultati reali o ragionevoli”. Fissati, cioè, per rafforzare l’immagine di una compagnia in piena espansione. L’ex dipendente Max Ebert ha ricordato in Enron – L’economia della truffa: “Sembrava sempre che raggiungere gli obiettivi fosse impossibile. Eppure, come per miracolo, ci riuscivamo sempre. Se domandavamo come fosse possibile, il nostro capo rispondeva sempre con una sola parola: ‘California’”.
Alla fine degli anni ’90, la Enron era entrata nel mercato elettrico della California, liberalizzato nel 1996 su pressione delle compagnie energetiche. Tra il 2000 e il 2001, lo stato fu colpito da decine di blackout non giustificati dallo stato della rete. Registrazioni emerse dopo la bancarotta rivelarono che la Enron aveva fatto pressione sugli addetti di varie centrali per inventare attività di manutenzione e causare interruzioni del servizio. La chiusura degli impianti creava così carenze artificiali, che facevano salire il prezzo dell’energia. In una conversazione registrata durante un incendio che causò un blackout, emersa durante le inchieste, un trader diceva: “Brucia, piccola, brucia! È bellissimo”. Un altro si augurava “un bel terremoto” che facesse “galleggiare la California sul Pacifico”.
La crisi energetica ebbe come effetto collaterale anche la distruzione della carriera politica del governatore della California, Gray Davis. Nel 2001, Davis era considerato uno dei favoriti per la nomination democratica alle presidenziali del 2004, in cui avrebbe sfidato proprio l’amico di Ken Lay, George W. Bush. Nel 2003, invece, i californiani votarono per rimuoverlo dal suo incarico. Per sostituirlo scelsero un repubblicano: la Enron aveva contribuito all’elezione di Arnold Schwarzenegger.
“Grazie molte, s*****o”
Nel luglio del 2000, ha scritto Gladwell sul New Yorker, un giornalista della redazione di Dallas del Wall Street Journal, Jonathan Weil, ricevette una dritta da una fonte del mondo delle banche d’investimento: “Dai un’occhiata ai conti della Enron”. Weil lo fece e concluse che, se si eliminavano dai conti della Enron le entrate non ancora realizzate, ma già a bilancio grazie al sistema mark-to-market, la compagnia stava perdendo soldi.
L’articolo di Weil non ebbe conseguenze immediate, ma finì sotto gli occhi di James Chanos, un investitore specializzato in vendita allo scoperto, cioè in scommesse sul crollo di titoli. Chanos cominciò a vendere allo scoperto azioni della Enron e, qualche mese più tardi, suggerì alla giornalista di Fortune Bethany McLean di studiare i bilanci della società. Nel marzo 2001 McLean, in un articolo intitolato Il prezzo delle azioni della Enron è troppo alto?, paragonava la Enron a “una scatola nera”, in cui era impossibile ricostruire i flussi di denaro.
L’articolo di Fortune ebbe maggiore risonanza di quello del Wall Street Journal. Pochi giorni dopo fu richiamato, durante un’audioconferenza, da un analista che rinfacciò a Skilling di guidare “l’unica istituzione finanziaria che non pubblica un bilancio o un resoconto dei profitti”. Skilling, replicò: “Grazie molte, apprezziamo la domanda… stronzo”.
La fine
Se la Enron aveva impiegato 16 anni per diventare una delle più grandi aziende al mondo, le bastarono pochi mesi per dissolversi. Le voci sulla sua contabilità si intensificarono, il titolo iniziò a scendere in primavera e continuò per tutta l’estate. Non smise nemmeno quando, il 14 agosto, Jeff Skilling si dimise all’improvviso. Il 9 settembre 2001, il New York Times parafrasava Shakespeare e titolava C’è del marcio nello stato della Enron, mentre a ottobre il Wall Street Journal pubblicava altri articoli sugli affari più opachi della società. La Securities and exchange commission – equivalente della Consob italiana – avviò un’indagine. Negli stessi giorni, la società di revisione di bilancio ingaggiata dalla Enron, Arthur Andersen, tritava una tonnellata di documenti.
Quando anche l’ipotesi di un salvataggio tramite la vendita in saldo a un’altra compagnia energetica sfumò, alla fine di novembre, le agenzie di rating ridussero la valutazione del titolo della Enron a ‘spazzatura’: le azioni valevano ormai pochi centesimi. Il 1 dicembre il consiglio di amministrazione della Enron votò all’unanimità per dichiarare bancarotta. I dipendenti furono informati la mattina del 3 dicembre. Ebbero 30 minuti per lasciare la sede.
I processi
Nel gennaio 2002 i giornali americani diedero la notizia che prima del collasso, mentre cercavano di rassicurare dipendenti e mercati, i dirigenti della Enron avevano venduto azioni per circa un miliardo di dollari. Il deputato Byron Dorgan, membro della commissione d’inchiesta del Congresso, disse: “Sul Titanic il capitano è almeno andato a fondo con la nave. Nel caso della Enron, il capitano prima ha dato un bonus a se stesso e ad alcuni amici, poi è salito con loro sulle scialuppe di salvataggio e ha gridato a tutti gli altri: ‘Non preoccupatevi, andrà tutto bene’”.
Dopo cinque anni di processi, in cui furono emesse condanne per decine di persone, Kenneth Lay fu riconosciuto colpevole di sei capi d’imputazione e rischiava fino a 45 anni di carcere, ma morì d’infarto prima di conoscere la pena. Jeff Skilling fu condannato a 24 anni e 4 mesi, ridotti nel 2013. È uscito di prigione nel febbraio 2019 e, secondo la Reuters, in estate ha lanciato una nuova società di investimenti nel settore dell’energia.
La Enron trascinò a fondo anche la Arthur Andersen ed è ritenuta responsabile, in modo indiretto, di altri fallimenti, come quelli dei supermercati Kmart.
L’eredità
Un anno dopo il crollo della Enron, il premio Nobel per l’economia Paul Krugman disse che in futuro “non le stragi dell’11 settembre, ma lo scandalo Enron” sarebbe stato visto come “la grande svolta nella storia degli Stati Uniti”. Nel 2002, in effetti, il Congresso americano approvò una legge che imponeva una maggiore trasparenza sulle scritture contabili. Oggi si può dire che quella norma non è bastata.
Nel 2001 la Enron aveva asset per 65 miliardi di dollari e la sua bancarotta fu la più grande della storia americana. In seguito, sei aziende l’hanno superata. Dopo il crac da quasi 700 miliardi di dollari della Lehman Brothers, Sam Buell, professore di legge dell’università di Duke che aveva rappresentato l’accusa nel caso Enron, disse che “gli imbrogli erano dello stesso genere. Sembra che nessuno abbia imparato la lezione”.
Il fenomeno, d’altra parte, non è solo americano. Wirecard, una società tedesca di pagamenti elettronici che è stata dichiarata insolvente nel settembre 2020, si è meritata il soprannome di “Enron tedesca” per le sue irregolarità contabili. Jim Chanos, l’investitore che aveva scommesso sul crac della Enron, ha incassato 100 milioni di dollari dalla vendita allo scoperto delle azioni della Wirecard.
“Il complotto degli stupidi”
Il giornalista del New York Times Kurt Eichenwald, nel libro Conspiracy of Fools (“Il complotto degli stupidi”), ha presentato la vicenda sotto una luce diversa. Secondo Eichenwald, ad affondare la Enron non fu la disonestà, ma l’incompetenza. Nemmeno i dirigenti della società, a suo giudizio, erano in grado di padroneggiare un meccanismo complesso come quello che avevano messo in piedi. Se il sistema è durato così a lungo, è stato soprattutto perché nessuno, o quasi, aveva provato a studiare davvero i bilanci.
Non lo fecero i giornalisti, che crearono il mito degli smartest guys in the room e, in caso di dubbi, accettavano alla cieca le spiegazioni di Lay e Skilling. Non lo fecero i contabili e gli avvocati pagati dalla Enron, che temevano di perdere un cliente da un milione di dollari a settimana. E non lo fecero le banche, che fecero affari con la società e dichiararono poi di non sapere nulla delle sue manipolazioni.
I pochi che provarono a sollevare dubbi non furono ascoltati. John Olson, un analista della Merrill Lynch, espresse perplessità sull’operato della Enron già negli anni ’90. La Enron, per ammissione del suo chief financial officer, escluse allora la banca da un affare, per “comunicare in modo forte che cosa pensasse l’azienda”. Poco dopo, Olson rimase senza lavoro.
All’inizio del 2001 un dipendente della Enron, dopo avere studiato per un anno i bilanci, prospettò al tesoriere dell’azienda uno scenario molto vicino a quello che si sarebbe realizzato pochi mesi più tardi. Il tesoriere gli promise di approfondire la questione, poi partì per le vacanze e non aprì mai più il rapporto. L’ultima possibilità di salvare la Enron, secondo Eichenwald, “morì quel giorno. Con il doppio dei crimini e la metà dell’incompetenza, la compagnia sarebbe sopravvissuta”.
Come ha sostenuto Gladwell, del resto, se sei universitari riuscirono a trovare il marcio nei conti della Enron già nel 1998, lo stesso avrebbero potuto fare investitori e analisti. “Tutto era in piena vista”, ha detto il loro professore alla Cornell, Charles Lee. “Per chi aveva i giusti strumenti e le giuste motivazioni, non c’era alcun mistero”.
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