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Diritti umani, squilibri commerciali, ambiente: perché aziende e consumatori devono iniziare a fare sacrifici

La pandemia ha fornito alle aziende occidentali che operano nei mercati di consumo una lezione brutale sui possibili effetti degli squilibri commerciali. Mentre la Cina vacilla ancora a causa di una nuova ondata di Covid, le aziende occidentali lottano contro un complicato nodo di interruzioni delle catene di fornitura, mancanze di prodotti finiti, componenti e materie prime. Sembra che i benefici di costo derivanti da 40 anni di delocalizzazione si stiano azzerando in poche settimane, facendo pagare il conto alle aziende e ai consumatori occidentali.

Si tratta, purtroppo, di squilibri di dimensione gigantesca. Per molti prodotti di consumo, da quelli di basso valore aggiunto fino a quelli dell’elettronica di consumo, la percentuale dei volumi prodotti in Cina supera ampiamente il 90%. E si tratta ovviamente della punta di un iceberg molto profondo, che si estende anche ai marketplace digitali. Secondo un rapporto recente, infatti, il 75% dei nuovi venditori nei primi quattro mercati di Amazon – Stati Uniti, Regno Unito, Germania e Giappone – hanno sede in Cina.

Tutto questo ha riflessi molto forti sulle azioni che i paesi occidentali possono compiere per contrastare la guerra in Ucraina. L’Occidente teme un accordo tra Cina e Russia. Eventuali sanzioni o tariffe nei confronti dei prodotti cinesi potrebbero fare molto male alla crescita economica di Pechino, ma avrebbero effetti devastanti anche su tantissime aziende occidentali. E produrrebbero, nel breve periodo, una pressione inflazionistica che potrebbe essere insostenibile per molti consumatori. E tutto questo avrebbe riflessi politici che potrebbero diventare pericolosi.

In sostanza, la nostra dipendenza dai bassi costi della produzione cinese ci ha messo in una posizione in cui qualsiasi azione metterebbe le nostre economie a rischio quanto quelle dei potenziali avversari. Sembra una situazione dalla quale non è possibile uscire.

I diritti umani

Le profonde dipendenze commerciali dalla Cina e da altri paesi asiatici obbligano molti brand a “dimenticare” ciò che accade nelle fabbriche dove vengono prodotti i loro manufatti. Qui le condizioni di lavoro non sarebbero tollerate per un solo giorno dai lavoratori delle fabbriche occidentali.

È quasi ironico il fatto che noi occidentali da una parte tolleriamo gli abusi realizzati in questi luoghi di lavoro – incendi nelle fabbriche del Bangladesh, campi di lavoro forzato in Cina, salari da fame in Pakistan -, dall’altra scivoliamo sempre di più verso l’accettazione di abusi simili nei nostri paesi. In effetti, il mancato rispetto della dignità dei lavoratori e la privazione dei diritti umani fondamentali non è una questione che riguarda solo paesi lontani. Nelle nostre democrazie assistiamo a una crescente divaricazione tra la ricchezza ormai illimitata di poche persone e la situazione di disagio economico di milioni di altre.

Un’oligarchia occidentale?

Nelle ultime settimane è accaduto che, mentre molti occidentali si dichiaravano favorevoli a imporre sanzioni nei confronti delle Russia e a confiscare ville e yacht dei cosiddetti “oligarchi”, contemporaneamente si progettava lo smontaggio di un ponte storico a Rotterdam per far passare lo yacht di Jeff Bezos – del valore di circa mezzo miliardo di euro – una volta ultimata la sua costruzione in un vicino cantiere navale. Anche se l’amministrazione della città ha concordato che i costi dello smontaggio del ponte sono a carico del fondatore di Amazon, la comunità cittadina si è opposta. Tuttavia Bezos potrebbe aprire ancora di più il suo gigantesco portafoglio per risolvere la questione e stendersi sotto il sole in mare aperto sul suo nuovo giocattolone. Nel frattempo, la sua azienda nel 2021 ha pagato compensi a Andy Jassy, suo successore nel ruolo di ceo, per oltre 210 milioni di dollari e sta facendo di tutto per evitare che i dipendenti dei suoi magazzini aderiscano al sindacato, nonostante le condizioni di lavoro poco dignitose. Non si può fare a meno, allora, di chiedersi se anche noi occidentali non abbiamo promosso un sistema oligarchico.

Allo stesso modo, il gigante statunitense della grande distribuzione Walmart continua ad aumentare i rendimenti per i suoi azionisti, mentre il suo contributo allo squilibrio della bilancia commerciale americana è costato migliaia di posti di lavoro in diversi settori manifatturieri. Questi posti sono stati sostituiti da lavori nei servizi, ma a salari più bassi. Walmart ha più volte dichiarato di voler correggere la situazione. Tuttavia le azioni reali sono poche. Secondo Newsweek, la pressione per diversificare l’offerta di prodotti a basso prezzo ha portato Walmart a disperdere la sua dipendenza tra i produttori asiatici a basso costo. Ad esempio, nel 2020 la società ha annunciato che avrebbe triplicato le importazioni di beni dall’India, portandole a dieci miliardi di dollari ogni anno entro il 2027.

I due fenomeni – la delocalizzazione della produzione e l’erosione dei diritti dei lavoratori sono uno la conseguenza dell’altro. Con il crescere dell’insicurezza economica di molti consumatori occidentali, la domanda di beni a basso prezzo aumenta e spinge ancora di più la produzione a spostarsi in paesi con bassi costi. Di conseguenza, i paesi occidentali diventano più vulnerabili. In questo modo i consumatori, poiché stanno perdendo potere d’acquisto, spingono inconsapevolmente verso ulteriori violazioni dei diritti umani.

La perdita di potere d’acquisto dei consumatori occidentali, che spesso peggiora la qualità della vita, espone le democrazie occidentali a livelli crescenti di radicalizzazione politica, favoriti da politici abilissimi a sfruttare il risentimento degli elettori.

La sostenibilità ambientale

I settori dei beni di consumo sono tra i principali produttori di sostanze inquinanti del pianeta. I materiali usati nella produzione, gli inquinanti provocati dallo spostamento delle merci, la plastica per imballare e i miliardi di scontrini in materiale non riciclabile stampati ogni anno hanno un impatto ambientale devastante. Non ci sono studi approfonditi a livello globale, ma il British Retail Consortium stima, ad esempio, che le emissioni annuali di gas serra del settore del commercio al dettaglio britannico siano superiori dell’80% alle emissioni combinate di tutto il traffico stradale del Paese.

Il cosiddetto fast fashion – cioè l’acquisto a basso prezzo di capi di abbigliamento che vengono indossati per poche settimane, per essere poi sostituiti – ha avuto un terribile impatto. I consumatori oggi comprano in media il doppio dei capi rispetto al 2000 e li “consumano” nella metà del tempo. L’85% dei prodotti finisce nelle discariche o negli inceneritori. Basta pensare che Shein, colosso cinese del fast fashion online, aggiunge oltre mille nuovi stili al suo sito web ogni giorno (Zara, per fare un confronto, ne aggiunge duemila al mese). Se si considera l’intero settore tessile-abbigliamento, si stima che sia responsabile di circa il 10% delle emissioni globali.

Se da una parte numerosi sforzi governativi e non governativi sono stati compiuti per stabilire obiettivi, linee guida e impegni per ridurre gli effetti delle attività aziendali e dei singoli consumatori, molti ritengono che la determinazione e il coordinamento tra gli attori chiave siano ancora scarsi. Secondo vari osservatori, la legislazione sul settore tessile e abbigliamento in fase di discussione al Parlamento europeo è un buon punto di partenza, ma è poco coraggiosa e poco attenta ai diritti dei lavoratori. Le proposte si focalizzano infatti sulla riparabilità, la durabilità e la riciclabilità dei prodotti, mentre nulla dicono relativamente alla sostenibilità sociale. Mancano del tutto, per esempio, regole sulle pratiche di acquisto sleali, che consentono ai brand europei di imporre prezzi bassi e la modifica degli ordini “all’ultimo minuto”, con un impatto violento sia sull’ambiente che sui diritti dei lavoratori delle catene di approvvigionamento. Allo stesso modo, nessun limite viene posto per i salari minimi. E le proposte non riguarderebbero le piccole aziende, che rappresentano una quota molto rilevante della produzione. Basta pensare che oggi, secondo Fashion Revolution, solo il 14% delle aziende del settore rendono pubbliche le informazioni sui loro prodotti e i loro processi produttivi.

Per riuscire a fermare il declino ambientale, a detta di molti, i cambiamenti da attuare sono talmente profondi che si verificheranno solo quando saremo sull’orlo del precipizio. Eventi recenti ci dicono, inoltre, che la dipendenza dai combustibili fossili non è solo pericolosa dal punto di vista ambientale, ma anche da quello geopolitico. Mette infatti le democrazie occidentali in una posizione in cui devono fare affidamento su paesi autoritari o non rispettosi dei principi di libertà. Se per mantenere bassi i prezzi dei combustibili ci dovessimo “staccare” dal rubinetto della Russia, si formerebbero nuove alleanze energetiche con paesi che non sono certo un modello di riferimento per il rispetto della dignità e della libertà.

La “vivibilità a lungo termine”

Le pandemie e le guerre, sebbene siano tragedie di dimensione planetaria, possono però fornirci insegnamenti. Possono spingerci a ripensare le nostre azioni e a valutare se esse sono coerenti con i valori ai quali teniamo di più. Se da una parte gli eventi geopolitici recenti hanno sconvolto i mercati di consumo, dall’altra le logiche che fino a oggi hanno governato quei mercati hanno contribuito in modo determinante all’attuale sconvolgimento. E tutto questo ci mette oggi in una posizione molto rischiosa. Proprio oggi, non tra 50 anni e nemmeno tra 50 settimane.

Tutto questo non è un attacco nei confronti dei comportamenti delle aziende e dei consumatori. Le aziende occidentali che operano nei mercati di consumo possono, modificando i loro comportamenti, contribuire alla sicurezza dei nostri paesi, alla stabilità internazionale e alla “vivibilità a lungo termine” della specie umana. Questo potrà accadere, però, solo se i consumatori, le aziende e i loro azionisti saranno disposti a sostenere i costi, che in realtà vanno considerati un investimento. Una sorta di tassa esistenziale di conservazione che dobbiamo pagare per il nostro futuro benessere. 

Immaginate come potrebbero essere i settori dei prodotti di consumo se le principali aziende occidentali firmassero una carta dei diritti che garantisce salari decorosi e condizioni di lavoro dignitose, a prescindere da dove i lavoratori sono collocati nelle catene di approvvigionamento globali. Immaginate poi l’impatto positivo di un impegno di queste aziende per incrementare in modo aggressivo la quota di acquisti di prodotti locali. E infine, immaginate se tutte queste aziende si impegnassero a ridurre e, dove possibile, eliminare l’utilizzo di materiali a base di petrolio e a incrementare in modo significativo la quota di energia autoprodotta da fonti rinnovabili. Questi sforzi non solo renderebbero la società e il pianeta più sani, ma servirebbero anche a riequilibrare lo scacchiere geopolitico. Non saremmo solo più sani, ma anche più sicuri.

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