Mark Zuckerberg

Con l’uso abituale dei social network, e soprattutto di Facebook che è di gran lunga il più comune e potente, è cresciuta una certa rassegnata consapevolezza tra i suoi utenti più smaliziati: è ovvio che Facebook usa le nostre informazioni personali e i nostri “mi piace” per mostrare pubblicità mirata (è nei fatti tutto il business model dell’azienda), è ovvio che le cose condivise spesso nella rete di amicizia vengono mostrate più frequentemente nella pagina iniziale ed è ovvio che l’attività sulla piattaforma contribuisce a formare un profilo pubblicitario.

Da un lato abbiamo l’utente dubbioso che preferisce non aderire a questo gioco e non si è mai iscritto a Facebook, dall’altro l’utente consapevole che pensa di avere chiaro il patto tra sé e la piattaforma: informazioni personali in cambio di facilità di socializzazione virtuale. E molti pensano che in fondo lo scambio sia equo: non è in fondo così diverso da quello che fa ogni negoziante o venditore del XXI secolo attivamente impegnato nel marketing.

Nel febbraio 2012, il New York Times Magazine pubblicò un lungo articolo che mise in chiaro al pubblico i meccanismi di data mining della grande distribuzione, con l’aneddoto della catena americana Target che viene a sapere (incrociando i dati degli acquisti) della gravidanza di un’adolescente prima del padre della ragazza, con effetti imbarazzanti. Il titolo nella versione online era del tutto esplicito: How Companies Learn Your Secrets. Ora sembra quasi preistoria, e buona parte del grande pubblico sembra avere introiettato questi meccanismi, sapendo bene che gli acquisti fatti con la carta fedeltà andranno a comporre un mosaico di consumi e preferenze. La maggioranza non si preoccupa o è quasi contenta di ricevere sconti e proposte personalizzate dalle marche preferite o dalle loro concorrenti.

Questa però è solo una parte della storia. In realtà in molti modi i siti e le app non sono silos isolati e comunicano tra di loro, quindi non è solo quello che viene fatto esplicitamente su Facebook a comporre il nostro profilo Facebook. Di recente sono emerse maggiori informazioni sulla raccolta dati da parte della piattaforma, raccontate su Gizmodo dalla giornalista Kashmir Hill in seguito ai risultati della popolare funzione “Persone che potresti conoscere” (in inglese “People You May Know” o PYMK). Il fatto che Facebook ci proponga sempre nuovi amici è una simpatica gentilezza che aumenta il nostro utilizzo della piattaforma e quindi gli utili per l’azienda, ma come spiegare che non solo appaiono nella lista suggerimenti ovvi, come i compagni delle medie e un nuovo collega d’ufficio, ma anche distanti conoscenze di anni passati non contattate da anni e anche nomi che non riusciamo a riconoscere?

Nei fatti, Facebook usa algoritmi sofisticati per i PYMK, un centinaio di “segnali” che pescano da attività sul sito, attività su altri siti collegati (per esempio attraverso le inserzioni pubblicitarie o l’inserimento del Facebook Pixel), analisi di fotografie ed eventi, tutte le possibili connessioni trovate nei contatti caricati dagli utenti stessi e probabilmente molto altro. Difendersi è praticamente impossibile, e questo pure nel caso che dovrebbe essere la soluzione tombale: non iscriversi mai.  Infatti lo stesso articolo pubblicato da Gizmodo lascia intendere come sia possibile che esistano “profili ombra” o comunque modi per utilizzare le informazioni personali di persone che non sono iscritte alla piattaforma ma che possono essere incrociate attraverso altri dati. Un contatto comune mai iscritto a Facebook (ma di cui la piattaforma conosce ad esempio nome e telefono) può allora essere il collegamento mancante tra due persone.

E questo è solo un caso semplice: da Sherlock Holmes in poi la tradizione del giallo poliziesco mostra nella fiction la risoluzione di complicate indagini attraverso piccoli passi logici, e Facebook – o per meglio dire gli algoritmi di intelligenza artificiale e machine learning che macinano i dati raccolti – usa questo mosaico di indizi per ricostruire uno scenario: presenza nello stesso evento (geo-localizzazione della app), seguite la pagina della stessa pizzeria, avete firmato insieme una petizione ai tempi del liceo…

Purtroppo a volte le conseguenze possono essere più preoccupanti del ritrovare un cugino scomparso in Australia. In molti casi, e questo vale maggiormente per gli utenti più evoluti, le vite digitali sono divise con attenzione tra attività personali e di lavoro, cercando di non mischiare le informazioni e i contatti; questo è ancora più vero per chi utilizza la rete per attività che richiedono un po’ di riservatezza, dall’attivismo politico a quello giornalistico, per non parlare delle relazioni sentimentali più o meno clandestine. In questo caso un nickname utilizzato su un forum separato e memorizzato in una lista contatti caricata da un conoscente su Facebook può essere l’anello mancante per svelare nome e caratteristiche di una persona che aveva scelto l’anonimato.

Su questi temi la Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili (CILD) ha pubblicato di recente una Guida introduttiva alla protezione dei dati personali, realizzata dall’avvocato Tommaso Scannicchio del programma “Libertà Civili nell’Era Digitale”. È un discorso vasto, ma diventerà sempre più centrale nella discussione delle politiche e dei diritti nei prossimi anni.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Per altri contenuti iscriviti alla newsletter di Forbes.it CLICCANDO QUI .

Forbes.it è anche su WhatsApp: puoi iscriverti al canale CLICCANDO QUI .