Articolo tratto dal numero di maggio 2023 di Forbes Italia. Abbonati!
L’arte povera è l’avanguardia italiana del Dopoguerra più amata dal mercato internazionale e Michelangelo Pistoletto ne è uno dei fondatori. Dopo aver concepito Città dell’Arte, fondazione biellese attiva nel sociale, a 90 anni la carriera di Pistoletto non conosce tregua e la sua mostra Pace Preventiva, a Palazzo Reale fino a giugno, è una riflessione filosofica sul mondo di oggi, alla luce della ricerca artistica. La sua vita tra Torino, New York e Biella è longeva quanto visionaria.
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Anni ’50, Torino: qui ha iniziato a dipingere. Ci racconta quel periodo?
L’Italia e la Torino degli anni ‘50 stavano vivendo l’uscita dal contesto di devastazione e povertà del Dopoguerra e il boom economico, e si avviavano verso un grande fermento sociale, politico ed economico. La mia formazione è avvenuta presso lo studio del pubblicitario Armando Testa e presso il laboratorio di mio padre Ettore Oliverio, restauratore.
Volevo scoprire la mia identità e mi sono dedicato al tema dell’autoritratto. Le prime tele erano di un nero riflettente, ma non mi sono accontentato di questo risultato e alla fine sono arrivato allo specchio, realizzato in acciaio lucidato, in cui accanto alla mia immagine si apriva lo spazio infinito.
Disegnavo su veline sottilissime un’immagine che, sovrapposta allo spazio dello specchio, altro non è che la dimensione della memoria. Sulla superficie specchiante si rifletteva lo spazio della vita, che interagiva con l’immagine della memoria. Con gli specchi ho fatto in modo che lo spettatore si potesse sostituire all’artista, creatore e demiurgo.
Da dove è nata l’idea dello specchio?
Dallo studio della pittura antica, in particolare dall’antico fondo oro delle pitture medievali, dove l’oro è una spinta verso la spiritualità. La duplicazione dell’immagine, invece, l’ho tratta dalle effigi sui sarcofagi romani, che identificano i defunti.
Le sue prime mostre risalgono alla seconda metà degli anni ’50. Ripercorriamo le tappe più significative.
Nel 1958 la mia prima galleria torinese è stata la Galatea, per la quale ho fatto i primi quadri su tela. Nel 1962 sono arrivati i primi quadri specchianti, che hanno creato una frattura con la ricerca precedente. Nell’anno successivo venne a trovarmi al mio studio Ileana Sonnabend, all’epoca la gallerista più importante a livello europeo, che collaborava con il marito Leo Castelli, il più influente gallerista dell’avanguardia newyorchese.
Decisi di rompere il mio contratto con Galatea e feci una mostra a Parigi. A quel punto Ileana e Leo mi proposero di andare a vivere a New York, ma io mi rifiutai categoricamente: mi sentivo molto lontano dalla mentalità americana e dalla cultura consumistica che aveva dato origine alla pop art. Quindi decisi di distruggere completamente la mia identità di marca: ho realizzato la serie Oggetti in meno, le cui opere sono ispirate a un carattere profondamente anti-consumistico, che secondo Celant si pongono alla base della nascita dell’arte povera. Per me la parola ‘povera’ implica l’essenzialità.
Negli anni successivi ha realizzato la Venere degli Stracci. Qual è il contenuto dell’opera?
La Venere degli Stracci è la figura della sostenibilità, il simbolo della bellezza e della memoria senza tempo. Gli stracci invece sono il simbolo dei rifiuti della società consumistica, e assumono un nuovo significato grazie al rapporto vitale con la memoria.
Alla fine degli anni ‘60 inizia a coltivare un forte impegno politico.
Sentivo una forte spinta ad agire e lo Zoo è stato una parte importante della mia carriera, in cui avevo deciso di aprire lo studio alle collaborazioni creative con artisti di campi diversi, dal teatro alla musica, fino alla danza. Attraverso le prime azioni collettive e l’apertura dello studio si è andato progressivamente formando un gruppo, Lo Zoo, costituito da persone provenienti da diverse discipline, insieme alle quali, tra il 1968 e il 1970, abbiamo costruito una serie di spettacoli.
L’idea era quella di fare uscire l’arte dallo studio dell’artista, inteso come luogo legato al potere, e andare nelle strade, dove l’arte avrebbe potuto confrontarsi più facilmente con temi politico-sociali e con la collettività. Le nostre erano provocazioni che volevano trovare una risposta politica: i nostri obiettivi erano quelli di costruire l’utopia, il cambiamento reale della società, che poi è stato lo scopo per cui ho costruito Città dell’Arte, nata a Biella nel 1999.
Quali sono i fondamenti di Città dell’Arte?
In Città dell’Arte, fondazione artistica da me creata nel 1998 dal restauro del Lanificio Trombetta di Biella, ho potuto realizzare il mio sogno di mettere finalmente l’arte al centro della trasformazione della società e di fare l’artista demiurgo.
Volevo mettere in comunicazione tutti i settori della società, dall’economia alla politica, dalla scienza alla religione, dall’educazione al comportamento, fino alla moda, all’architettura, al design e alla cucina. Alla base del progetto c’è l’educazione, che deve essere libera, dinamica e indipendente, capace di uscire dalle istituzioni: a questo scopo è nata l’Università delle idee.
Per la Biennale di Venezia del 2005 è nato il progetto Terzo Paradiso.
La figura che ho disegnato come base del Terzo Paradiso è un doppio cerchio dell’infinito, in cui dai contrasti fra gli opposti si crea l’equilibrio fra gli elementi, e il cerchio centrale si allarga all’universo. Questa figura artistica trova una corrispondenza negli studi scientifici sulla fisica del bosone di Higgs realizzati da Guido Tonelli.
Per l’ultima mostra a Palazzo Reale nasce invece La Pace Preventiva.
La pace arriva sempre dopo le guerre come una vittoria, un prodotto finale risultato della fine della morte e della distruzione. A livello di ricerca, sono partito dai pozzi di cartone degli Oggetti in meno da cui è scaturita la riflessione sulla figura mitologica del minotauro, per me il primo simbolo della guerra. In un moto circolare che cerca di invertire il movimento della storia, la pace viene prima della guerra.
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