Articolo tratto dal numero di maggio 2024 di Forbes Italia. Abbonati!
Se fosse un romanzo, il titolo potrebbe essere L’insostenibile leggerezza del digitale, con questo incipit: “Tutti credevamo che il Digitale (qui con la D maiuscola perché è il protagonista, ndr) fosse virtuale e virtuoso, addirittura indispensabile per far diventare anche gli altri migliori, e invece abbiamo scoperto che anche lui non è pulito”.
Per capire quanto, al di là di ogni gioco paraletterario, basta un’immagine del Global Carbon Project, il progetto di ricerca sulla sostenibilità promosso dal network internazionale di scienziati Future Earth: se il web fosse una nazione, sarebbe la terza per consumo di energia elettrica e la quarta per inquinamento, dopo Cina, Stati Uniti e India. Altro che abilitatore della sostenibilità, dicono adesso in molti: l’industria digitale, come tutte le altre, ha un problema di impronta ambientale, anche se meno evidente.
“Molti ancora si stupiscono nello scoprire che la questione ecologica riguarda anche l’universo digitale, ritenuto intrinsecamente pulito in quanto virtuale, impalpabile, apparentemente immateriale. Transizione ecologica e transizione digitale non sono equivalenti”, avverte Giovanna Sissa, autrice di un libro che si intitola Emissioni segrete, recentemente pubblicato da il Mulino. Sissa ha studiato fisica, poi il phd in informatica e ora insegna sostenibilità ambientale dell’Ict alla scuola di dottorato di Genova. Una materia sempre più dibattuta la sostenibilità delle tecnologie digitali, che sono fatte di prodotti fisici, infrastrutture importanti, software sempre più potenti che per funzionare consumano molta energia.
I numeri
C’è un tabù da infrangere, suggerisce Sissa: il digitale che, con i suoi bit e la sua immaterialità, per esistere ha bisogno di cavi, circuiti, calcolatori potentissimi, memorie, apparecchiature varie e dispositivi individuali. E tutto questo deve essere costruito, trasportato, alimentato, dismesso e smaltito. Qual è il punto di questo ciclo dove vengono prodotte più emissioni? “La produzione dei microprocessori, un’industria complessa, che richiede produzioni raffinate”.
Quei microprocessori su cui si investe sempre di più perché sono i neuroni dell’intelligenza artificiale, protagonista di una nuova rivoluzione che si porta dietro un bel carico di CO2. Nel 2023 la potenza consumata a causa dell’IA è stata pari a 4,3 GW, cioè la stessa di un paese come Cipro, con quasi 1,2 milioni di abitanti. Le previsioni di Schneider Elettrica, che ha condotto la ricerca, dicono che entro il 2028 l’AI brucerà una quota tra i 13,5 e i 20 GW. Un esempio ancora più specifico: una gpu (la scheda grafica che permette di fare calcoli velocemente) venduta da Nvidia nel 2020 consumava fino a 400 watt, due anni dopo un nuovo modello quasi il doppio (700 watt).
Poi ci sono data center, blockchain e criptovalute, cloud: tutte tecnologie straordinariamente energivore. Qualche numero: l’1% della domanda globale di energia elettrica è assorbita dai data center, i cuori del mondo digitale, e un solo server può produrre tra una e cinque tonnellate di CO2 l’anno. Per estrarre (fare mining, in gergo) criptovalute si consuma tanta elettricità quanta la Nuova Zelanda in un anno. E via consumando e inquinando.
L’impatto di azioni di tutti i giorni
I dati sono instabili, a volte contraddittori, ma indicano tutti la stessa direzione: il costo ambientale del digitale è destinato a crescere parallelamente alla sua diffusione nella nostra vita, dal lavoro al tempo libero. La rivoluzione digitale, un tempo vissuta come la soluzione per un futuro sostenibile, rivela ora la sua doppia faccia: fonte inesauribile di innovazione, certo, ma anche occasione per consumare risorse e produrre rifiuti. Secondo alcune proiezioni, nel mondo entro il 2030 ci saranno quasi 75 milioni di tonnellate di rottami elettronici.
La questione riguarda i comportamenti di tutti: chi avrebbe mai pensato che gesti quotidiani come inviare una mail o sfogliare pagine web potessero avere un impatto sull’inquinamento globale? Eppure, la nostra vita digitale, come quella nel mondo fisico, lascia una scia di CO2: oggi è stimata attorno al 4% del totale (compreso l’uso della tv) e potrebbe raddoppiare già entro il prossimo anno. Frenare questa deriva è soprattutto responsabilità delle aziende – a partire dei colossi digitali -, ma anche di tutti noi che magari ci preoccupiamo della spazzatura nei parchi o negli oceani, ma assai meno della quantità di video che scarichiamo o delle mail che inviamo.
L’impegno delle Big Tech
Il digitale consuma tanta energia: la linea comune delle tech company è aumentare la quota di rinnovabili fino ad arrivare al 100% per mitigare l’impatto ambientale delle loro attività. Microsoft si è impegnata a raggiungere questo obiettivo per i suoi data center entro il 2025, Amazon ha recentemente investito in 6,5 GW energia eolica e solare e Google punta a eliminare completamente l’uso di energia da combustibili fossili entro il 2030. Ma questo è solo una parte del problema.
“L’impostazione hi-tech nell’informatica non si è mai posta l’obiettivo di ridurre le emissioni”, ricorda Sissa. “Uno sviluppo attento a contenere i consumi elettrici e le emissioni, un green software, sarebbe molto utile”. Così come ripensare il ciclo di vita delle tecnologie digitali, con l’impatto della produzione e dello smaltimento di dispositivi elettronici, con server e dischi rigidi che richiedono sostituzioni frequenti.
E poi ci siamo noi. Che cosa possiamo fare? “Usare i servizi digitali che ci sono davvero utili e non farlo solo perché sono gratuiti anche se non ci servono”, consiglia Sissa. Per esempio, potremmo cominciare a eliminare le mail non necessarie: se si pensa che ogni messaggio inviato produce circa quattro grammi di CO2 e che, solo in Italia, ogni giorni siamo in 35 milioni a farlo, si comprende quanto sarebbe importante per l’ambiente anche questa piccola attenzione. E poi ci sono le app inutilizzate, che consumano comunque energia. O le foto mandate a raffica su WhatsApp, “tanto ho i giga illimitati”.
Dovremmo poi preferire dispositivi che durano di più e non cambiarli solo per inseguire i nuovi modelli, e ancora di più preoccuparci di dove e come smaltire quelli che sono arrivati a fine vita. Insomma, è arrivato il momento di una coscienza ecologica digitale sempre più diffusa, soprattutto in quelle generazioni molto sensibili ai temi ambientali, ma anche immerse in una vita digitale di cui ancora non percepiscono l’impatto.
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