Articolo tratto dal numero di luglio 2024 di Forbes Italia. Abbonati!
Nel 2016 Hillary Clinton, dopo la sconfitta elettorale con Donald Trump, disse: “A tutte le bambine che stanno guardando: non dubitate mai di essere preziose e potenti e di meritare ogni possibilità e opportunità nel mondo per perseguire e realizzare i vostri sogni”. Sono passati otto anni e quelle bambine, oggi ragazze, ci insegnano che la parità è importante, che le parole sono importanti, che non ci sono giocattoli per maschi e giocattoli per femmine, che non esistono sport da uomo e sport da donna. Ci insegnano che è ingiusto lo stereotipo di genere che porta le donne ad allontanarsi da alcuni corsi di studio o professioni. Eppure, nonostante la consapevolezza delle nuove generazioni, ci vorranno ancora 134 anni per raggiungere la parità di genere a livello globale, secondo i dati del Global Gender Gap Report del World Economic Forum. “E noi non abbiamo tutto questo tempo”, dice Irene Boni, amministratrice delegata del gruppo Talent Garden, principale piattaforma in Europa per l’educazione e la formazione nell’ambito dell’innovazione digitale, oltre che network phygital di innovatori e incubatore di startup.
Boni è una ceo ed è madre di quattro bambini. I suoi discorsi spaziano dall’intelligenza artificiale alla Nba, dalla formazione di talenti alla genitorialità. Odia essere definita ‘boss’. Smentisce la convinzione che per lavorare nel mondo della tecnologia sia necessaria una laurea stem. Ha intrapreso una battaglia personale contro la parola ‘mammo’: “È profondamente irrispettosa, perché presuppone che l’onere della cura dei figli sia solo della donna, e anche perché non riconosce la figura di padre”. Racconta di essere stata definita ‘quota rosa’, per poi sentirsi dire: “Non ho niente contro le donne, ho anche due figlie femmine…”. Forse, alla luce di tutto questo, non stupisce scoprire che si dovrà attendere più di un secolo perché le donne guadagnino quanto gli uomini.
Quante donne ci sono ai vertici aziendali
La legge Golfo-Mosca prevede che il genere meno rappresentato nei consigli d’amministrazione e nei collegi sindacali delle società quotate e di quelle pubbliche ottenga almeno il 30% dei membri eletti (all’inizio fissava la quota al 20%, nel 2015 è stata alzata). E la presenza femminile nei board, secondo dati diffusi da Deloitte, è aumentata dal 29,3% del 2018 al 36,3% del 2021, fino al 40,4% del 2023.
Se da un lato sembra che aziende e istituzioni provino a fare qualcosa, dall’altro le donne, pur laureandosi più degli uomini, sono solo il 44% degli impiegati, il 20% dei dirigenti e il 4% dei ceo. Anche se la Golfo-Mosca ha garantito una maggiore rappresentanza nei cda delle quotate, insomma, non ha influito sulla percentuale di donne ceo.
“Potremmo chiederci perché ci siamo fermati qui, dal momento che il numero delle laureate supera quello dei laureati, sia in Italia, sia nella media dei paesi europei. Tuttavia, anche se non penso che le quote rosa siano la soluzione, penso che siano parte della soluzione. È come imparare ad andare in bicicletta: ai bambini si mettono le rotelle per trovare equilibrio e consapevolezza, prima di lasciarli pedalare. La normativa è come le rotelle che aiutano l’organizzazione a liberarsi da ogni pregiudizio”. La chiave per imparare a usare la bicicletta al meglio, secondo Boni, è la formazione.
Gli ostacoli verso la parità
Nella nostra classe dirigente non sono sovrarappresentati solo gli uomini, ma anche i nati negli anni Settanta o prima: il 53% ha oltre 50 anni e il 20% è over 65. All’epoca il tasso di occupazione femminile era del 30%: questo significa che due dirigenti su tre sono cresciuti in una famiglia tradizionale, con una mamma che si prendeva cura della casa. “Bisogna fare formazione ai dirigenti, facendo comprendere cosa viene a mancare quando non c’è spazio per la diversità. Bisogna fare campagne di sensibilizzazione contro i gender bias. E ancora, bisogna aiutare le donne a valorizzarsi, cosa che spesso, a causa del retaggio culturale, non viene naturale”.
C’è un altro grande ostacolo sulla strada verso la parità: le vanity metrics, cioè indicatori di performance che sembrano impressionanti, ma in realtà non forniscono un quadro reale (il nome ‘metriche di vanità’ è nato per fare riferimento, ad esempio, al numero di follower di un account social, contrapposto al numero di follower attivi). “Se l’obiettivo è ‘solo’ raggiungere il 50% di dirigenti donna, può accadere che vengano promosse persone che non sono pronte e che non riescono a ottenere risultati. Questo può generare l’effetto opposto a quello desiderato e rinforzare il pregiudizio nei confronti delle donne”.
Perché ci vogliono più scienziate
Gli stereotipi di genere influenzano moltissimo le scelte di studio. Nel nostro Paese bambine e ragazze sono sottorappresentate nelle materie stem. “In un’intervista Kobe Bryant, stella dell’Nba, raccontò che, dopo un campionato in cui non aveva fatto neanche un canestro, aveva passato un’estate intera ad allenarsi in modo molto disciplinato, e fu con la disciplina che divenne un campione. Così deve essere anche per le stem. Bisogna anche cancellare lo stigma per cui le materie scientifiche sono sinonimo di difficoltà. E poi non si deve per forza avere una laurea stem per avvicinarsi al mondo stem. In Yoox ho conosciuto una donna, entrata come communication specialist, laureata in lingue, che oggi è data engineering manager di Spotify. Il nostro migliore data engineer in Talent Garden è un filosofo, che ha sviluppato curiosità verso i dati e si è formato anche in autonomia. Anche qui, la parola chiave è formazione. È molto importante che, in un mondo in cui il cambiamento tecnologico è sempre più veloce, le persone non pensino di aver finito perché hanno fatto l’università, perché hanno fatto un master o perché ne hanno fatti due”.
La formazione umanistica e la componente umana non vengono meno. Anzi, la formazione scientifica, secondo Boni, non è in contrasto con quella umanistica. “Bertrand Russell diceva che la matematica non è altro che l’arte di dire le stesse cose con parole diverse. La semantica non è altro che lo studio del linguaggio. Il coding è un linguaggio di programmazione. In realtà le materie scientifiche e umanistiche hanno una base comune: la logica”.
L’importanza del pensiero laterale
Questo riguarda anche l’intelligenza artificiale generativa. “Quelli che ‘surferanno’ l’onda dell’IA, invece di esserne travolti, saranno in grado di sfruttarne le potenzialità, unendo i puntini che la macchina non riesce a unire. Parlo del pensiero laterale, il pensiero critico. È per questo che Talent Garden ha lanciato la prima Artificial Intelligence Academy europea, che offre corsi di formazione generalisti e specializzati sull’IA”.
La stessa Boni non ha avuto un percorso accademico e professionale lineare. Ha studiato al liceo classico e si è laureata in economia. È approdata quindi al mondo tech e poi a quello della formazione. “Talent Garden è un punto di sintesi tra diverse esperienze professionali e tensioni personali. Fin dall’università ho avuto un interesse per il concetto di impatto. Ho studiato economia politica, focalizzandomi sull’economia dello sviluppo. Il mio sogno era lavorare in organizzazioni internazionali o scrivere sul Sole 24 Ore e sensibilizzare le persone sui temi dello sviluppo e della creazione di valore tramite l’economia. Spesso, però, la vita decide per noi, e per una serie di coincidenze mi sono trovata a fare un percorso diverso”.
La storia di Irene Boni
Boni ha iniziato la sua carriera in Procter & Gamble e McKinsey: “Qui ho imparato il rigore dell’analisi, come affrontare e risolvere problemi complessi, come orientarmi velocemente anche su temi che non mi appartenevano”. Era vicina alla promozione a manager quando ha lasciato McKinsey per entrare in Yoox. Non sapeva che da lì a poco Yoox sarebbe diventata uno dei primi unicorni italiani. “In dieci anni ho fatto una cavalcata che dalla quotazione mi ha portata alla fusione con Net-A-Porter, fino al delisting con Richemont”. Aveva 33 anni quando il fondatore, Federico Marchetti, le ha affidato metà dell’azienda, dandole in mano tutta la parte di operations, tecnologia e risorse umane. Poi è arrivata in Talent Garden come group ceo: “Guidare un’organizzazione che supporta le persone nell’affrontare le sfide professionali e del cambiamento digitale si sposava molto bene con la mia ricerca di impatto e con le competenze che avevo acquisito”.
Oltre al ruolo in Talent Garden, ci sono state altre due tappe importanti: consigliere d’amministrazione indipendente in Safilo e in Edizione, holding della famiglia Benetton. “Conservo ancora la volontà di apprendere e scoprire come si lavora in realtà anche lontane da me. Credo che il cambiamento tecnologico e di contesto sia talmente veloce che è impossibile, per chi è in posizioni di responsabilità, avere il set informativo ottimale per prendere decisioni. Se lo avessimo, saremmo troppo lenti. La soluzione è affidarsi alle persone che hanno la competenza di dettaglio sul particolare ambito, dare loro le informazioni di contesto e avere fiducia nelle decisioni che prendono. È la capacità di perdere il controllo. Se pretendiamo di entrare nel dettaglio di ogni minima decisione, le aziende si paralizzano. Non c’è modo di tenere sotto controllo la complessità. Chi pensa che ci sia si illude”.
Questo tipo di leadership è incentrata sulla responsabilizzazione delle persone, sull’aprire le porte ai talenti, donne o uomini. Boni racconta di avere avuto sempre la fortuna di lavorare con persone che le hanno dato supporto e hanno saputo valorizzarla. E lei prova a fare lo stesso. “Quando ho avuto il mio primo figlio, a 35 anni, ho iniziato a vivere episodi che mi hanno portata a interrogarmi su quale fosse l’ambiente in cui volevo lavorare. Sono giunta alla conclusione che la cosa peggiore che si possa fare è subire e stare zitta, tenersi dentro quel senso di ingiustizia. Non bisogna tollerare. Se un ambiente non valorizza le donne, merita di perdere le donne”.
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