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Strategia

America First, politica estera e piani vaghi sull’economia: i programmi di Trump e Harris a confronto

Articolo tratto dal numero di ottobre 2024 di Forbes Italia. Abbonati!

Donald Trump e Kamala Harris, il diavolo e l’acqua santa. Radicalmente diversi, dichiarano di avere in testa due versioni altrettanto diverse del loro paese. Quella di Trump la conosciamo. Il suo movimento Maga (Make America Great Again) è l’espressione ideologica di un populismo conservatore che ha fatto proseliti anche in Europa. Quando Harris accusa Trump di essere poco rispettato, lui risponde: “Non è vero, Viktor Orban, un leader forte, un uomo forte, mi ammira moltissimo”.

Verrebbe da pensare che per gran parte degli americani Orban sia un nome come un altro: non hanno la minima idea di chi sia e avrebbero difficoltà a trovare l’Ungheria sulla mappa. Invece, per la base degli elettori di Trump, quel nome è familiare: Tucker Carlson, star del giornalismo di destra, è volato a Budapest per incontrarlo di persona. E lo ha raccontato grosso modo così: un leader conservatore modello, contro l’immigrazione di massa, la globalizzazione, in difesa dei valori cristiani della tradizione. Nel suo reportage, Carlson ha presentato l’Ungheria come un paese che ha scelto una via diversa da quella dell’Occidente liberale, secondo lui moralmente in declino. Il grande nemico: la burocrazia di Bruxelles, simbolo del globalismo, contro cui Orban è in lotta perenne.

Questa è la teoria. Chi guarda da vicino sa che la pratica è molto più sfumata. Innanzitutto, l’Ungheria ha beneficiato moltissimo della globalizzazione e del mercato unico di Maastricht. È cresciuta sfruttando il suo vantaggio comparato, ovvero costi di produzione più bassi. Ed essendo meno ricca, ha anche goduto di lauti trasferimenti di denaro dagli altri paesi dell’Unione europea. Altro che sovranismo.

Trump e Harris a confronto

Ma le cose non sono così nette nemmeno dall’altra parte dell’Oceano. Harris si fa erede della politica economica di Joe Biden. Più inclusiva e aperta di quella di Trump, certo, eppure fondamentalmente radicata (ormai) in un approccio ‘America First’, in campo economico e industriale. È da un pezzo che gli Stati Uniti credono meno nell’apertura dei mercati, quel mondo di regole globali che loro stessi hanno contribuito a edificare. Per Trump, ma anche per il team di Biden, globalizzazione e rapporto con la Cina andavano largamente riformati. La cura: intervento dello Stato nell’economia, sussidi, tariffe, protezionismo. Biden ha mantenuto i dazi di Trump contro l’export cinese e lo scorso maggio li ha resi più impervi. Tasse più alte per batterie, celle solari, acciaio, alluminio, attrezzature mediche.

L’aumento più vistoso ha colpito le auto elettriche. Una tassa proibitiva del 100%. Cosa ha riservato invece agli alleati? Da una parte, Biden ha sospeso i dazi imposti da Trump su acciaio e alluminio europei; dall’altra, ha firmato due grandi leggi all’insegna del nazionalismo industriale. Una specie di ‘America first’, anche se con un tocco verde e più di diplomazia. Gli obiettivi sono due: vincere la competizione tecnologica con la Cina e stabilizzare il sistema politico americano.

L’idea del partito democratico è che un’industria più forte rinvigorisce la classe media, disinnescando il virus populista. Il problema è che così l’Europa si è trovata in mezzo a politiche industriali aggressive: non solo quella cinese, la più pericolosa, ma anche quella americana. I sussidi e gli sgravi fiscali dell’alleato Biden sono destinati solo alla manifattura prodotta negli Stati Uniti. L’industria europea rischia di finire svantaggiata, a meno che non trovi accesso ad aiuti dello stesso livello. La risposta è stata in larga parte allentare i vincoli sugli aiuti di stato, però con un effetto discorsivo sul mercato unico europeo. L’altra strada, suggerita anche da Mario Draghi, è fare debito comune. In ogni caso, sarà difficile emulare la potenza di fuoco degli Usa. Gli economisti più liberali non si strapperanno i capelli: per loro gli aiuti di stato sono spesso sinonimo di spreco e corruzione.

Quanto alle politiche di Biden, l’Inflation Reduction Act, lanciato come stimolo alle tecnologie verdi, vale 1.200 miliardi di dollari di sovvenzioni entro il 2032. Altre decine di miliardi sono finiti nel Chips and Science Act, una legge per incoraggiare la produzione di microchip avanzati in America. Ed è proprio questo il punto, sia per un’ipotetica amministrazione Harris (che seguirà la linea di Biden) che per un ritorno alla Casa Bianca di Trump: riportare a casa la manifattura, raggiungere la sicurezza delle catene di approvvigionamento, mantenere la supremazia nei settori considerati strategici. Trump lo fa in modo sfacciato e abrasivo. Biden ha lavorato per rinsaldare le alleanze, sia in Europa che in Asia.

Ma l’obiettivo comune dei due resta soffocare la concorrenza cinese. E questo può portare a divergenze di interessi e priorità anche con gli alleati più stretti. Un esempio è la produzione di microchip (o semiconduttori), che fa perno su Taiwan, coinvolgendo però una vasta rete di aziende e fornitori in Corea del Sud, Giappone, Stati Uniti, Olanda. L’idea di dividere il mondo in due blocchi tecnologici contrapposti – Cina da una parte, Stati Uniti dall’altra – è giudicata impossibile: avrebbe costi enormi per tutti, e la Cina è ancora un mercato troppo importante per gli alleati dell’America, tra cui Giappone, Taiwan e Corea del Sud.

Le alleanze internazionali

Tutto questo per dire cosa? Che tutto sommato cambierebbe poco tra una vittoria di Trump e una di Harris? Abbiamo visto che l’obiettivo di fondo di repubblicani e democratici è lo stesso: l’egemonia sulla Cina. L’amministrazione Biden però crede nelle alleanze per affrontare sfide comuni (la Cina, la Russia, il cambiamento climatico) e Harris seguirebbe lo stesso approccio. Per il suo avversario invece è un gioco a somma zero. Da uomo d’affari, Trump ha una visione utilitaristica delle alleanze. Ai paesi Nato dice: “Pagate, altrimenti non vi difendo”. All’Unione Europea: “Comprate i nostri prodotti, altrimenti aumenterò i dazi ai vostri”. La politica come arte di chiudere accordi. Lo stile, a volte, somiglia a quello di un capo mafioso. Ma la sostanza? Ricordiamoci che anche Obama chiedeva agli europei di rafforzare gli eserciti. E davvero Trump sarebbe la rovina dell’Ucraina? Non è detto. Un conto è la campagna elettorale, un altro la responsabilità di governo.

Anche a Trump, se vince, non converrà servire una mano troppo favorevole a Putin: sarebbe controproducente, perché dietro la Russia c’è la Cina, oggi il grande nemico. Però lo stile è anche sostanza. Obama chiedeva senza minacciare. Trump sui dazi si spinge molto più in là. Ha parlato più volte di imporre una tariffa universale del 10% su tutte le importazioni, oltre ad applicare una tariffa del 60% sui prodotti provenienti dalla Cina. Danneggerebbe l’export europeo, quindi sarebbe un colpo sgradevole alla nostra economia. Harris è contraria: “I dazi più alti faranno aumentare i prezzi in America e colpiranno il potere d’acquisto dei nostri cittadini”. Tanto basta per farcela preferire a Trump.

Verso un aumento del deficit

Per il resto, i due rivali hanno in comune di essere piuttosto vaghi sull’economia. Trump ha una ricetta tipicamente di destra, anche se adattata al nuovo corso populista e protezionista: far crescere il Pil con deregulation e tagli delle tasse, mentre i dazi dovrebbero stimolare la manifattura interna e raccogliere denaro per coprire il deficit. Ma potrebbe anche succedere il contrario. Secondo Adam Posen, presidente del Peterson Institute for International Economics, un think tank di Washington, una tariffa universale del 10% danneggerebbe migliaia di aziende statunitensi che per il loro business dipendono dalle importazioni. Ed è probabile, avverte Posen, che l’Unione europea aumenti a sua volta i dazi come rappresaglia, “paralizzando altre migliaia di aziende statunitensi che dipendono dalle esportazioni estere”.

L’unica certezza, dicono gli economisti, è un aumento del deficit americano, già molto alto. Ma anche in questo caso Harris sembra preferibile a Trump. Secondo diverse analisi, il tycoon avrebbe un effetto più destabilizzante sul deficit. Una stima pubblicata il 26 agosto dal Penn Wharton Budget Model (Pwbm), un gruppo di ricerca apartitico, lascia pochi dubbi sul fatto che Harris sia più responsabile dal punto di vista fiscale. I calcoli del Pwbm stimano che l’agenda di Trump aumenterebbe il deficit federale di 5.800 miliardi di dollari nel prossimo decennio, quasi cinque volte di più rispetto al piano di Harris, che nello stesso periodo aggiungerebbe 1.200 miliardi. Una differenza di cinque volte a sfavore di Trump, tuttavia, è probabilmente esagerata, fa notare un articolo dell’Economist.

Andrebbe considerato, infatti, che le politiche di Trump (deregulation e tagli di tasse) potrebbero essere migliori per la crescita economica, almeno stando al modello del Pwbm. Tenuto conto di questo, Trump aggiungerebbe al deficit ‘solo’ 4mila miliardi di dollari, rispetto ai 2mila di Harris; in ogni caso entrambi appesantirebbero il bilancio, ma Harris meno di Trump. Le proposte di quest’ultimo farebbero salire il deficit all’8% del Pil all’anno, rispetto al 6% attuale, mentre quelle di Harris lo porterebbero verso il 7%.

La sfida delle tasse

Di fatto, Harris sembra voler conservare alcuni dei tagli di tasse di Trump – il suo staff ha solo accennato a una crescita dell’imposizione per chi guadagna più di 400mila dollari l’anno, confermando però un aumento delle tasse sulle società dal 21 al 28%. Trump, invece, ha oscillato tra l’abbassare quell’imposta al 15 o al 20%, il che avrebbe impatti diversi sul deficit. Dal lato spese, Harris vorrebbe concedere finanziamenti alle piccole aziende e incrementare i crediti d’imposta per i figli e per l’acquisto di case. La sua idea, in sostanza, è questa: più tasse per i più ricchi, aumentando al contempo la spesa federale per i meno abbienti. Il focus di Trump, invece, è sulla riduzione delle tasse e l’introduzione di nuovi dazi.

Quest’ultimo aspetto, anche per Goldman Sachs, è quello più problematico. Tariffe più alte rischiano di causare inflazione, spiega la banca, rendendo i beni importati più costosi. Invece di stimolare la manifattura interna, i dazi potrebbero danneggiare le aziende americane che dipendono dalle importazioni. Secondo Goldman Sachs, questo rischia di frenare la crescita economica. L’altro ostacolo, ancora secondo la banca, è l’ostilità di Trump verso l’immigrazione. Il miliardario vorrebbe deportare milioni di immigrati illegali; la realtà è che queste persone vivono e lavorano negli Stati Uniti, ed espellerle, oltre a essere costoso, sarebbe un danno per il tessuto economico. Probabile risultato: più inflazione e meno crescita.

Resta comunque un grado notevole di incertezza, perché le agende economiche dei due candidati sono scarne di dettagli, soprattutto quella di Harris. Il punto centrale è che da entrambe le parti c’è poco riguardo per il problema del debito. Negli ultimi cinque anni, con Trump e Biden, il deficit federale è stato in media del 9% del Pil, e le agenzie di rating, come Fitch e S&P, hanno declassato il debito americano. Tuttavia raddrizzare il debito non sembra una priorità né per l’opinione pubblica, né per i politici. In campagna elettorale se ne parla poco. L’enfasi è su altro: difendere la sanità, le pensioni, gli abitanti di un paese che invecchia. Ci sono di mezzo anche la sfida geopolitica con la Cina e la lotta al cambiamento climatico. Una congiuntura sfavorevole al rientro del deficit.

Quando diventa insostenibile? Gli Usa sembrano avere un margine ancora ampio. Il Giappone, con un debito pari al 155% del Pil, non ha problemi a emettere nuove obbligazioni. E il dollaro dà un vantaggio unico: è la valuta globale per eccellenza, cosa che assicura un appetito forse inestinguibile per il debito americano. Ciò che conta è la forza sottostante dell’economia, e gli Stati Uniti hanno ancora le aziende più innovative e produttive del mondo. Ma per l’Europa, nel duello Trump-Harris, l’aspetto forse più importante è politico. Un successo di Trump darebbe energia a quei politici, spesso a destra, che indeboliscono l’Ue. Primo fra tutti Orban, ma in Italia anche Salvini. A Giorgia Meloni, sotto sotto, conviene sperare in una vittoria di Harris.

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