Articolo tratto dal numero di novembre 2024 di Forbes Italia. Abbonati!
Di Emilio Cozzi e Matteo Marini
C’è una grande Europa spaziale nella visione – meglio, negli auspici – di Mario Draghi: indipendente nella capacità di accedere all’orbita, con razzi e satelliti propri, competitiva e audace nel posizionare il proprio know how e le proprie imprese sul mercato, decisiva nella spesa pubblica e nei programmi strategici. Risoluta, con una legislazione e un mercato unici. Di fatto, tutto ciò che ora non è. Ed è difficile ignorare un parallelismo con una Difesa comune tuttora assente.
Dall’imperativo categorico di essere centrali nello scenario della new space economy globale deriva la necessità di portare il continente a essere meno unione e più federazione; di accettare, cioè, la capacità decisionale e di spesa di un soggetto unico e non di una somma di nazioni. Nel suo rapporto The future of european competitiveness, l’ex presidente del Consiglio e della Banca centrale europea si occupa anche di spazio e lo fa, in particolare, evidenziandone le criticità. È una disamina che non risparmia raccomandazioni e che tocca tutti i settori della strategia extra atmosferica. Un’analisi dalla quale l’Europa emerge come comprimaria.
Il confronto con Stati Uniti e Cina
Il confronto, evocato in più di una pagina, è con le due grandi potenze, Stati Uniti e Cina. Che, premesse diversità nelle loro strutture politiche, economiche e sociali, hanno un governo centrale orientato agli interessi nazionali. A partire da quel che alimenta con più vigore le infrastrutture spaziali: il denaro pubblico. Nel 2023, l’Ue e i suoi stati membri hanno investito nel settore spaziale 13 miliardi di dollari; gli Stati Uniti, meno popolosi ma con un Pil quasi doppio, hanno speso oltre cinque volte di più: 73 miliardi. La previsione è che il dato statunitense continuerà ad aumentare, mentre i finanziamenti europei ristagneranno. “Si prevede”, aggiunge il rapporto, “che la Cina […] arriverà a una spesa di 20 miliardi di dollari entro il 2030”.
È forse questo il punto cardine di ogni riflessione, già messo in luce dalle rimostranze delle principali aziende spaziali europee a maggio, subito dopo lo Space Council del Consiglio dell’Unione europea e dell’Esa, l’agenzia spaziale continentale. Lo scarso impegno economico delle istituzioni, rispetto ai concorrenti, è evidente anche nel settore della Difesa: gli Stati Uniti allocano 37 miliardi di dollari in applicazioni spaziali per la difesa, circa il 60% della spesa complessiva. La stima per la Cina, nel 2023, è di quasi 14 miliardi di dollari, di cui il 62% è il budget per lo spazio civile e il restante 38% per la difesa. L’Unione si ferma al 18%.
Lo spazio come la Difesa
È un discorso datato, ma allo stesso tempo attuale: l’Europa stenta ad avere una Difesa comune. Ognuno protegge la propria capacità tecnologica. E tuttavia, si legge, “senza l’aggregazione della domanda tra gli stati membri è più difficile per l’industria prevedere le esigenze a lungo termine e aumentare l’offerta, riducendo a sua volta la capacità complessiva di soddisfare la domanda e privando l’industria di ordini e opportunità”. Le maggiori spese istituzionali avvantaggiano Stati Uniti e Cina e “generano un mercato più ampio per le aziende nazionali, che in genere applicano approcci di preferenza nazionale nell’approvvigionamento e nell’acquisto di servizi e soluzioni spaziali”. I paesi possono permettersi politiche protezionistiche, escludendo competitor esteri, varando normative ad hoc, misure come il ‘buy american’ e restrizioni alla condivisione di tecnologie critiche. L’Europa non lo sta facendo, o non abbastanza.
Va peraltro precisato come Draghi non neghi l’eccellenza che l’Europa riesce comunque a esprimere, in particolare nell’osservazione della Terra (programma Copernicus) e nel geoposizionamento (Galileo). La sottolineatura, però, è sulle debolezze, come la crisi dei lanciatori, che ne ha decapitato per molti mesi la capacità di accesso all’orbita e ha costretto ad acquistare i servizi di lancio proprio negli Usa, dall’azienda diventata, de facto, la dominatrice del mercato: SpaceX.
Perché serve una legge europea
Ciò che preclude all’Unione il salto di qualità è, a parere di Draghi, l’assetto istituzionale e normativo: serve una legge europea che regoli il settore, oggi normato solo da leggi nazionali poco o per nulla coordinate fra loro. Non esiste un’autorità unica, dato che la capacità di spesa spaziale è divisa tra Ue, Esa e agenzie nazionali. Queste ultime vincolate alle decisioni dei propri governi, ergo a un interesse nazionale specifico, piuttosto che comunitario. Serve un mercato unico in cui articolare un maggiore coordinamento della spesa pubblica.
Una zavorra alla competitività, si insiste, è individuata nel meccanismo del ‘georitorno’ dell’Esa, che obbliga a redistribuire fra gli ecosistemi industriali dei territori gli investimenti nei programmi spaziali, in base alla capacità di spesa dei singoli stati. Un principio che disperde risorse, frammenta le catene di approvvigionamento e limita l’avanzamento tecnologico. Anche in quanto a ricerca e sviluppo, l’Europa insegue: impiega, di media, 2,8 miliardi di euro all’anno, contro i 7,3 degli Stati Uniti e i 2,3 della Cina. Vale lo stesso per l’accesso al credito di pmi e startup, lungi, in Europa, dall’essere un meccanismo efficiente.
L’impegno, raccomanda il rapporto, deve essere uno e uno solo: misurato in termini di capacità di spesa, rivelerà l’ambizione di crescere come potenza spaziale, al singolare. Un obiettivo raggiungibile solo pensandosi e agendo con un centro che coordini le parti. Se quella vista finora si è chiamata Unione, bisognerebbe fare un passo in più, e pensarla come una federazione spaziale.
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