I sindacati si dicono pronti alla “più lunga battaglia di contrattazione collettiva che Volkswagen abbia mai visto”. Lunedì 2 dicembre i lavoratori delle fabbriche tedesche del gruppo hanno cominciato gli scioperi a oltranza per protestare contro il piano dell’azienda per superare la crisi: chiusura di tre dei dieci stabilimenti in Germania, migliaia di licenziamenti e riduzione del 10% degli stipendi di chi resterà.
Il gruppo, che possiede anche i marchi Audi, Seat, Cupra, Skoda, Bentley, Lamborghini e Porsche per le auto, Man e Scania per i veicoli commerciali e Ducati per le moto, ha circa 300mila dipendenti in Germania, di cui 120mila con un contratto di lavoro collettivo. Al primo giorno di sciopero hanno aderito circa 100mila dipendenti.
Lo scontro tra Volkswagen e i sindacati
Poche settimane fa Volkswagen ha annunciato la chiusura dello stabilimento dedicato al suv elettrico Audi Q8 e-tron a Bruxelles. Pochi giorni fa ha venduto la fabbrica Urumqi e una pista di prova a Turpan, nella regione cinese dello Xinjian, alla Shanghai Motor Vehicle Inspection Center. In 87 anni di storia, però, non ha mai chiuso uno stabilimento in Germania.
I dirigenti di Volkswagen hanno deliberato i tagli dopo i cattivi risultati del gruppo negli ultimi mesi e contano di risparmiare almeno 4 miliardi di euro. Nel terzo trimestre l’utile è crollato del 63,7%. Le vendite sono diminuite del 7,1%, soprattutto a causa del -15% in Cina, mercato principale del gruppo, dove a inizio anno Volkswagen ha ceduto il titolo di marchio più venduto a Byd. Un fattore decisivo sono i prezzi, e in particolare quelli dei modelli elettrici: il più economico di Volkswagen costa 40mila euro, cioè il doppio di quelli di alcuni concorrenti cinesi, aiutati anche dai sussidi del governo. Da inizio anno il titolo della società ha perso il 30% in Borsa.
A settembre, in un incontro con i dipendenti della fabbrica di Wolfsburg, dove ha sede il gruppo, il direttore finanziario di Volkswagen, Arno Antlitz, ha sottolineato che la domanda di auto in Europa non si è mai ripresa dal Covid. Le consegne sono diminuite di due milioni di unità e la sola Volkswagen ne ha perse 500mila, cioè “l’equivalente di circa due stabilimenti”. L’azienda ha deciso così di ritirarsi da un accordo sindacale in vigore dal 1994, con cui si impegnava a mantenere l’attuale livello di occupazione fino al 2029. Con la disdetta, i licenziamenti potrebbero cominciare a metà 2025.
“Tutti devono dare il loro contributo”
A novembre Ig Metall, il sindacato dei metalmeccanici tedeschi, ha fatto una controproposta a Volkswagen: un piano da 1,5 miliardi di euro che prevedeva di tagliare i bonus per i dirigenti e il resto del personale e di non aumentare gli stipendi in futuro in cambio di orari di lavoro più brevi, vista anche la sovracapacità di alcuni impianti. Il gruppo ha rifiutato perché, sostiene, le misure non avrebbero benefici significativi nel lungo periodo.
Nel primo giorno di sciopero Daniela Cavallo, la donna che guida il consiglio di fabbrica di Volkswagen, ha ricordato che l’azienda “è stata un’enorme macchina da profitti negli ultimi tempi” e che dal 2014 i soli Porsche-Piëch, azionisti di maggioranza di Volkswagen, hanno incassato dividendi equivalenti alla somma che si guadagnerebbe “se si vincesse alla lotteria tutte le settimane per tutta la vita”. Ora chiede che “tutti diano il loro contributo, compresi il cda e gli azionisti”.
A favore dei sindacati gioca la struttura aziendale di Volkswagen: su 20 seggi del consiglio di sorveglianza, dieci sono occupati dai lavoratori e due dalla Bassa Sassonia – lo stato tedesco in cui si trova Wolfsburg -, che è azionista e vuole evitare una crisi dell’occupazione.
La crisi dell’auto europea
Volkswagen è entrata in crisi assieme a gran parte dell’industria automobilistica europea. Nel 2024 le immatricolazioni sono calate per mesi, la transizione elettrica ha frenato. Per esempio Stellantis, che ha appena ricevuto le dimissioni dell’amministratore delegato Carlos Tavares, ha registrato un calo dei ricavi del 27% nel terzo trimestre del 2024. Nello stesso periodo la redditività di Mercedes è scesa al 4,7%, poco più della metà dell’obiettivo minimo aziendale dell’8%. Nissan, che fa parte del gruppo Renault, è in cerca di un nuovo investitore e, secondo un suo dirigente citato dal Financial Times, si giocherà la sopravvivenza nei prossimi “12 o 14 mesi”.
La situazione, nel caso di Volkswagen, è aggravata da altri fattori. Uno è la dipendenza dalla Cina: non solo i costruttori locali sono sempre più competitivi, ma la casa tedesca ha molti stabilimenti in Cina dove produce auto e componenti destinati all’Europa, ora esposti ai dazi. Secondo molti esperti, poi, Volkswagen ha commesso errori nella transizione elettrica. Alcuni sostengono che abbia investito troppo, altri che abbia investito male. Tra i principali problemi c’è Cariad, la piattaforma di software unificata del gruppo. I suoi ritardi hanno obbligato a posticipare il lancio di alcuni modelli. I dirigenti hanno deciso allora di tagliare i costi e cercare competenze all’esterno, con investimenti come quello da 5,8 miliardi nella startup statunitense Rivian.
I mali della Germania
Alla crisi dell’auto europea si somma quella dell’economia tedesca. Il governo prevede per il 2024 un calo del Pil dello 0,2%, dopo il -0,3% del 2023. La Germania è l’unico paese avanzato in recessione e la sua produzione industriale è ancora al di sotto dei livelli pre-pandemia del 10% circa. Ha risentito più di altri dello scoppio della guerra in Ucraina perché era il paese europeo che importava più gas dalla Russia ed è in ritardo nella transizione energetica, con una bassa quota di rinnovabili (solare ed eolico soddisfano meno del 10% del fabbisogno nazionale). Il sistema economico tedesco si fonda su industrie che consumano molto, come quella chimica, quella meccanica e quella dell’auto, per le quali l’aumento del costo dell’energia è stato molto pesante.
Tante grandi imprese tedesche, oltre a Volkswagen, hanno annunciato tagli. A febbraio Continental, uno dei più grandi produttori mondiali di pneumatici, ha annunciato che avrebbe lasciato a casa oltre settemila persone. Zf Friedrichshafen, uno dei principali fornitori di componenti, eliminerà fino a 14mila posti di lavoro entro il 2028. Bosch ha appena annunciato 5.500 tagli e ridurrà stipendio e orario di diecimila persone, mentre ad agosto Daimler ha comunicato blocco delle assunzioni e una riduzione di orario. Fuori dal mondo dell’auto, Thyssenkrupp taglierà 11mila posti di lavoro nelle acciaierie entro il 2030, mentre Meyer Werft, azienda di costruzioni navali con 3.600 dipendenti, è stata salvata dallo Stato con più di 400 milioni di euro.
Un problema culturale
La crisi economica della Germania, secondo un’analisi del Post, ha a che vedere con l’incapacità dei governi di investire nello sviluppo economico e con una cultura per cui il rigore dei conti è il primo valore da rispettare in politica economica. La Confindustria tedesca ha calcolato che, per far ripartire l’economia, servirebbero investimenti per 1.400 miliardi. Altri paesi ricorrono alla spesa pubblica, come auspicato anche da Mario Draghi nel suo rapporto sulla competitività. La Germania, però, ha vincoli che le impediscono di fare debito.
Nel 2008, ricorda ancora l’analisi del Post, Angela Merkel, all’epoca nel primo dei suoi quattro mandati da cancelliera, disse di ispirarsi al modello della Schwäbische Hausfrau, la virtuosa casalinga della Svevia che gestisce con oculatezza il bilancio di casa. Dal 2009 la Costituzione fissa il limite del deficit federale allo 0,35% del Pil. In Italia, per esempio, il rapporto deficit/Pil è del 7,4%, in Francia del 5,5%.
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