I dazi di Trump sono un’ulteriore tegola sull’industria dell’auto, è vero. Ma lo stesso Trump sta dando una scossa alla difesa europea, la quale potrebbe creare posti di lavoro ben retribuiti e rimpiazzare, almeno in parte, le perdite in altri settori. È ciò che sta accadendo in Germania, dove alcune aziende militari negoziano l’acquisizione di fabbriche in crisi e l’assunzione di lavoratori licenziati. In realtà è un processo già in corso, cominciato con l’invasione dell’Ucraina nel 2022, ma il secondo mandato di Trump potrebbe accelerarlo.
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Alcuni esempi: KNDS, una joint venture franco-tedesca, vuole costruire carri armati Leopard 2 e veicoli blindati Boxer in Sassonia, e per farlo ha rilevato una fabbrica della francese Alstom che produceva vagoni ferroviari. Dei 700 dipendenti, 580 saranno riassorbiti.
Poi c’è il caso di Hensoldt, specializzata in sistemi di guerra elettronica, che sta discutendo con i colossi dell’automotive Bosch e Continental per assorbire parte della loro manodopera che rischia di essere licenziata. A fine anno Continental chiuderà la fabbrica di Wetzlar, lasciando a casa 370 lavoratori. Ma queste persone stanno già venendo reclutate da Hensoldt, che lì vicino possiede una fabbrica. Hensoldt dice di voler assumere intere squadre di ingegneri software provenienti dal mondo dell’auto.
Anche Rheinmetall, il più grande produttore di armi tedesco, sta dando una mano al mondo dell’auto in difficoltà. C’è stato un accordo per assumere in una nuova fabbrica di munizioni a Unterlüss una parte dei 900 lavoratori licenziati dallo stabilimento di Gifhorn, dove Continental produceva freni. Anche gli impianti di Berlino e Neuss, prima dedicati a componentistica auto ed energetica, dovrebbero essere riconvertiti alla produzione di armi e munizioni.
Per anni l’industria della difesa è stata trattata con molta circospezione dal governo e dagli investitori tedeschi. I fondi ESG evitavano accuratamente i titoli del settore militare. I governi spendevano poco nel riarmo. La guerra su larga scala in Ucraina ha cambiato le cose. E il futuro cancelliere Friedrich Merz, scosso dall’approccio ostile dell’amministrazione Trump, ha dato una spinta ulteriore. Si è accordato con il centrosinistra per un grande piano di investimenti in infrastrutture e dispositivi militari, che dovrà essere votato in parlamento perché è necessario allentare alcuni vincoli costituzionali sul debito. Per i mercati il cambio di passo è serio, dato che i titoli della difesa tedeschi sono schizzati subito in alto.
Ma oltre al piano di Merz c’è una proposta di investimenti anche a livello europeo. Anche qui l’idea è allentare i vincoli di bilancio dei governi per gli investimenti militari e, in aggiunta, Bruxelles vorrebbe fare debito comune, sul modello di quanto avvenuto durante la pandemia.
A questo punto, però, cerchiamo di arrivare al nocciolo della questione: le armi possono sul serio dare respiro alla zoppicante industria europea? Una stima del Kiel Institute, autorevole think tank economico tedesco, è utile per farci un’idea. L’ipotesi è che i paesi UE portino la spesa militare al 3,5% del Pil, superando l’obiettivo Nato del 2%. Secondo il think tank tedesco, l’economia europea registrerebbe una spinta di crescita tra lo 0,9% e l’1,5% all’anno. Non è un moltiplicatore altissimo, però bisogna considerare anche i benefici indiretti: senza sicurezza, a cosa servono sanità e pensioni?
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Per avere un impatto massimo sul Pil le armi dovrebbero essere prodotte nel blocco dell’Unione Europea. Ma su questo c’è un dibattito perché diversi paesi, tra cui la stessa Germania, vorrebbero coinvolgere partner extra-UE per rafforzare la difesa più rapidamente. La Francia, invece, insiste su una produzione interamente locale. È lo stesso dilemma che ha bloccato per mesi altri fondi per l’industria della difesa. Il nuovo piano di Bruxelles vale 150 miliardi di euro e va trovato in fretta un compromesso.
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