Articolo tratto dal numero di maggio 2019 di Forbes Italia. Abbonati.
Di Eva Desiderio
Pioniere, visionario, uomo di idee, di fatti e di immagine. Grande, grandissimo Giorgio Armani, orgoglio d’Italia, 85 anni il prossimo 11 luglio portati benissimo, il passo scattante ed esercitato dalla cura costante del fisico e dalla vita sana, la mente sempre proiettata in avanti, il sorriso aperto, ma il piglio severo dell’uomo che si è fatto da solo. Ricco, ricchissimo, eppure attento agli altri, discreto nel soccorso ai più deboli, attento ai bisogni dei dipendenti, una vita bella e piena ma sempre lontana dagli eccessi. Fatta eccezione per il lavoro che ancora oggi lo impegna ogni giorno dell’anno, senza tregue, tra le collezioni di abbigliamento, gli accessori per l’arredo, la cosmesi, i profumi, gli occhiali, lo sport come le divise ufficiali della Nazionale italiana di calcio, le progettazioni di spazi anche per la ristorazione e gli hotel, eventi, grandi trasferte in giro per il mondo, come la prossima a Tokyo per la sua prima pre-collezione donna.
Uno stile unico ed ineguagliabile per dettare il tempo delle tendenze, lui che non le ha mai cavalcate e tantomeno subite. Amato da tutti, un cognome che tutti conoscono nel mondo, rispettato per la sua autorevolezza e il suo rigore, amico delle star del cinema e della musica, ma al tempo stesso attento alla vita di ogni giorno. Al timone da solo di un gruppo solidissimo che ha chiuso il 2017 a 2.335 milioni di euro di fatturato, con un patrimonio netto di oltre 2 miliardi, investimenti al top per 82,5 milioni di euro, presidente e amministratore delegato del Gruppo Armani e unico azionista della Giorgio Armani spa, con cinquemila dipendenti diretti, 13 stabilimenti di produzione e 500 negozi in 46 paesi.
Qual è la maggior ricchezza di una persona?
So che la risposta può sembrare ovvia, ma credo che la salute sia addirittura un prerequisito. Senza, ogni altra ricchezza perderebbe inevitabilmente di valore. E con la salute, la libertà: di espressione e di azione. Sapendo che non è mai conquistata per sempre.
Cosa significa oggi e cosa ha significato per lei il lavoro nella vita? Come ci si sente quando si è protagonisti di una storia di successo sempre in costante progresso?
Sono cresciuto in una famiglia con una grande etica del lavoro, severa nell’educazione dei figli. Lavorare era un dovere, ma quando mi sento chiedere “perché la moda?” posso soltanto rispondere: perché evidentemente era destino. Un accumularsi di esperienze che hanno contribuito a costruire un lavoro che allora nessuno conosceva. Ho tenuto duro, formandomi attraverso attività sempre diverse, giorno per giorno, e ho avuto ragione. Il lavoro è la storia e la ragione della mia formazione, e anche se sono felice di quello che ho fatto e dei risultati ottenuti, qualche volta mi sembra che sia successo tutto troppo in fretta. Anche perché non accetto di accontentarmi, pretendo sempre il meglio da me e dagli altri. E il meglio c’è sempre, basta sforzarsi di raggiungerlo.
Lei ha cominciato a lavorare quando era molto giovane. Quale consiglio darebbe ai ragazzi e alle ragazze di oggi impegnati a trovare la propria strada?
Dare consigli non mi piace. Ai giovani, soprattutto, perché la società cambia i suoi riferimenti e i modi di esprimerli, padroneggia tecnologie e sistemi di comunicazione sempre più complessi, allarga i suoi confini arrivando quasi a farli sparire. Una cosa soltanto mi sento di dire: se si è animati da una vera, grande passione, meglio osare.
Il 1973 è un anno importante che segna la vera svolta col piccolo ufficio in corso Venezia, 37. Parlando di moda oggi crede che possa essere ancora possibile cominciare quasi da zero e realizzare tutto quello che l’ha portata alla Giorgio Armani spa, con la forza e il prestigio che il mondo le riconosce? Lo stilista-imprenditore, pioniere e mentore di se stesso, può ancora sbocciare o quella passata è una fase irripetibile della storia del fashion?
Penso sia stata una fase irripetibile, perché seguiva tutte le sensibilità estetiche che avevano caratterizzato il finire degli anni ’60. Esprimeva quel cambiamento sociale, un fermento che attraversava l’intero paese. Si è rivelata una forma di creatività che ha originato un’industria con le sue professioni, le sue aziende, i suoi dipendenti. Ha modificato il mondo del lavoro e ancora, nella ricerca della sostenibilità, non ha terminato il suo rinnovamento produttivo.
Secondo la classifica di Forbes è al quarto posto tra gli italiani più ricchi. Come si sta in questa posizione?
Sono fiero dei risultati raggiunti, che sono basati sul mio lavoro e su quello di tutti i miei collaboratori.
Il 1999, l’anno dell’acquisto del palazzo dell’ex Nestlé di via Bergognone e l’inizio della trasformazione di un’area intera di Milano che si rivitalizza. E poi l’apertura dell’Armani/Silos, che ora ospita la mostra sul grande architetto Tadao Ando, che ha realizzato l’Armani/Teatro. Milano è sempre nel suo cuore: quanto è cambiata?
Milano sta vivendo un momento magico e con i problemi legati alla Brexit c’è chi comincia a preferirla a Londra. Ha una fama che poche altre hanno: sa amalgamare la cultura con picchi di creatività e produttività. Al di là dei servizi efficienti dei nuovi quartieri e dell’offerta culturale, oggi è una città più consapevole che sta sviluppando un forte senso di comunità. Credo sia questo a fare di Milano, in un momento in cui si alzano i muri, un vero ponte con l’Europa e il mondo.
La scelta netta di essere unico proprietario della sua azienda e mai la tentazione della Borsa. Perché?
Non ero e non sono interessato e, francamente, non sento il bisogno di denaro da terzi. Ho un bilancio corretto e la liquidità che mi serve, oltre alla velocità di decisione e alla libertà strategica, per me indispensabili. Non ho mai pensato di ricorrere a investimenti che non fossero miei e ho fatto crescere la mia azienda un passo alla volta, prendendo decisioni sulle quali ho riflettuto e attuando iniziative in piena autonomia.
A che punto è la Fondazione Giorgio Armani?
La Fondazione ha lo scopo di garantire che quanto ho creato e sostenuto da proprietario e socio unico, duri nel tempo. Mi sento energico e impegnato nel mio lavoro come mai prima d’ora, ma sono realista: la Fondazione, oltre a realizzare progetti di utilità pubblica e sociale, assicurerà che il Gruppo si mantenga stabile e coerente con i principi che mi stanno a cuore e che da sempre ispirano la mia attività di designer e imprenditore. Sono principi basati su autonomia e indipendenza, un approccio etico e corretto, un’attenzione all’innovazione e all’eccellenza.
Parliamo di mercati internazionali. Quali sono i maggiori per la Giorgio Armani spa?
Ancora oggi l’Europa rimane il mercato più importante, ma i risultati sono particolarmente soddisfacenti anche in Nord America e nella zona del Far East che comprende Cina, Giappone, Corea e il Sud Est Asiatico.
Guardiamo all’Italia. Come vede la situazione del nostro paese?
Complicata, imprevedibile. Percorsa da inquietudini e contraddizioni. Ma non è una situazione nuova per l’Italia: già in passato il nostro paese ha affrontato minacce e grandi difficoltà, interne come esterne, e ha attraversato periodi duri, sia a livello sociale che economico. Sono convinto però che, come abbiamo sempre fatto, riusciremo a trovare il percorso più giusto per noi, seguendo i valori corretti. Credo che siano proprio questi a rendere uno Stato grande, e a permettergli di rafforzarsi, anche economicamente.
Sempre più aziende straniere comprano imprese italiane. Teme che il nostro know how prima o poi verrà meno? E la nostra artigianalità e maestria? Come difenderci da questo saccheggio che nella moda ha ormai grandi dimensioni, nel passaggio dai competitor europei a quelli cinesi?
Il futuro della moda italiana è tutto da scrivere, e il momento in effetti è delicato. La nostra naturale inventiva sarà fondamentale in questo senso, come la libertà dagli schemi che ci consente di adattarci sempre, con originalità. Ma il nostro vero ostacolo forse è quella propensione a non credere nelle nostre forze, che ci impedisce di promuovere come dovuto, tutto quello che facciamo. E comunque, non dimenticherei che, se qualcuno compera, c’è qualcun altro che desidera vendere.
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