Le sole tecnologie non possono avere un ruolo salvifico. Né possono essere sempre neutrali. Il loro sviluppo e uso rappresenta un processo che diventa sociale, culturale e politico. Vale anche per la cosiddetta “transizione energetica” di cui si parla molto in questi anni, vale a dire il passaggio dall’utilizzo di fonti non rinnovabili (come il carbone) a fonti rinnovabili (come l’energia solare). Gli effetti di questa rivoluzione sul mercato del lavoro sono, però, molto meno dibattuti. Forse un motivo molto semplice: il quadro tutt’altro che roseo.
Il problema principale è che non tutti i mestieri creati dall’energia pulita possono rimpiazzare quelli più tradizionali e più inquinanti. L’industria dell’estrazione carbonifera, ad esempio, impiega oltre sette milioni di persone e impatta innumerevoli altre attraverso l’indotto. Tuttavia, per raggiungere l’obiettivo più ambizioso dell’Accordo di Parigi sul clima – mantenere il cambiamento climatico entro 1,5 gradi nel 2030 – la quota carbone nel mix energetico globale dovrebbe diminuire molto più rapidamente di quanto già sta facendo, e finire col ridursi addirittura tra 73 e il 97% nei prossimi trent’anni.
Che succederà ai lavori che andranno persi lungo la strada? Sostituirli non sarà un gioco da ragazzi, spiega una ricerca indipendente pubblicata dall’Institute of Physics Publishing, che ha cercato di capire quanti impianti fotovoltaici ed eolici si dovrebbero costruire globalmente per rimpiazzare, da un lato, l’energia perduta con la dismissione del carbone, e dall’altro i posti di lavoro ad esso collegati.
L’indagine si è concentrata sui quattro Paesi (Cina, India, Stati Uniti e Australia) che da soli rappresentano il 70% circa della produzione mondiale di carbone. Con l’eccezione americana, tutti gli altri potrebbero avere notevoli difficoltà a rimpiazzare un settore vetusto con uno all’avanguardia. In Cina, il Paese il cui settore minerario impiega più persone di tutti, soltanto il 29% delle aree in cui viene estratto il carbone sarebbe adatto all’energia solare. Va ancora peggio con l’eolico, che potrebbe funzionare soltanto nel 7% di tutti i territori che nei quattro Paesi di cui sopra sono al momento impiegati per il carbone. Senza contare il fatto che la costruzione dei nuovi impianti puliti potrebbe occupare una superficie notevolmente più vasta di quella occupata dalle miniere, con questioni legate all’abitabilità, alle frizioni locali e alle infrastrutture ancora tutte da valutare.
I lavoratori nelle miniere di carbone, riporta lo studio, solitamente non migrano quando rimangono disoccupati. Ma la maggior parte dei posti dove il carbone verrebbe abolito non sono abbastanza ventosi per poterci installare le pale eoliche. Per quanto riguarda le possibilità di impiego dell’energia solare, la Cina è messa peggio di qualunque altro Paese produttore del carbone, mentre andrebbe molto meglio negli Stati Uniti. Dove, secondo la ricerca, il 62% delle aree dove viene estratto il carbone potrebbero essere riconvertito a questo scopo. Ma di energia solare ce ne vorrebbe davvero tanta, per colmare il vuoto lasciato dal carbone: l’equivalente di 143 giga watt, ovvero quasi tre volte la capacità attuale del Paese.
E se anche questo obiettivo titanico venisse raggiunto, si potrebbero far transitare verso l’energia pulita soltanto due terzi dei lavori persi col carbone – e sempre che il loro aggiornamento professionale vada a gonfie vele. L’unico Stato americano dove i lavori prodotti dall’energia eolica potrebbero essere un’alternativa decente al carbone? Il Wyoming.
Come se non bastasse, la riorganizzazione produttiva legata al passaggio alle energie rinnovabili minaccia di fare parecchi danni non solo sul terreno occupazionale, ma anche su quello geopolitico. Il mercato in espansione delle auto elettriche, seppur positivo sul benessere atmosferico delle città, notoriamente impiega materie prime ancora più scarse di quelle su cui si basa l’attuale paradigma nel settore, concentrate in poche aree geografiche. Si parla già di una possibile crisi delle forniture alla fine di questo decennio, e la corsa agli accaparramenti è già partita, con ogni mezzo, al punto che alcuni siti complottisti e non solo hanno collegato il recente colpo di Stato in Bolivia, il Paese che ha un quarto delle riserve mondiali di litio, agli interessi di potenze straniere e multinazionali.
Per ciò che concerne l’utilizzo delle energie pulite, invece non è sempre chiaro da dove arriverà la capacità per supportare un notevole sovraccarico ai sistemi di generazione e distribuzione dell’elettricità: un’occasione ideale per rispolverare argomenti a favore del nucleare (come già è avvenuto in questi anni: si pensi alla proposta del premier inglese Theresa May di costruire 10 centrali per alimentare il futuro parco degli electric vehicle). Col risultato che le lotte ambientaliste potrebbero a loro volta scindersi in diversi filoni pro o contro l’atomo. Non esattamente un quadro roseo, per una rivoluzione che viene spacciata come panacea della crisi delle democrazie liberali.
Mentre il mondo, sotto le pressioni dell’opinione pubblica e della politica si sta spostando verso nuove forme di accaparramento energetico, è sempre più importante farsi delle domande sui soggetti che ne verrebbero stravolti. Legare le questioni legate agli impieghi dell’energia agli obiettivi – sacrosanti – della decarbonizzazione dell’economia è fondamentale, insomma, per anticipare le crisi sistemiche che verranno. Le lacerazioni che il cambiamento porterà con sé d vanno studiate, affrontate e anticipate.
Non tutti i problemi legati alla transizione si potranno risolvere insieme e con un colpo solo. Sarà compito della politica e della società stabilire i modi, e le priorità, nei quali dovrà avvenire la riconversione delle economie nazionali. Ma lasciare completamente inattesa la parte della sostenibilità sociale della rivoluzione green sarebbe un errore imperdonabile.
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