Un sorriso e una tazza di tè. Negli atelier di via Montenapoleone, nel cuore pulsante del Quadrilatero della Moda milanese, i clienti cinesi è bene accoglierli così: con molta cordialità, offrendo possibilmente un infuso da bere ed evitando i contatti fisici, che nella loro cultura sono pratica poco gradita, almeno con gli estranei. A redigere questo galateo per i negozi del fashion made in Italy è stata qualche mese fa la società di consulenza Global Blue in collaborazione con Montenapoleone District, l’associazione dei marchi del lusso presenti della zona, che cercano così di guadagnare ancor più appeal tra i consumatori provenienti dalla Repubblica Popolare, particolarmente numerosi in questo 2017 di boom del turismo italiano. Ma non è soltanto la crescita dei vacanzieri orientali che ha spinto i negozianti di via Montenapoleone a studiare come mettere a loro agio i clienti con gli occhi a mandorla. Tutti gli stilisti e gli operatori del Quadrilatero della Moda hanno semplicemente preso atto di una realtà certificata dalle statistiche: secondo le stime di Bain&C. e della Fondazione Altagamma, circa il 30% degli acquirenti di beni di lusso in tutto il mondo oggi abita in Cina. Dunque gli stilisti italiani non possono rinunciare a crescere ancora sul mercato della Repubblica Popolare, dove la spesa pro-capite per l’abbigliamento è attesa in aumento di oltre il 100% entro il 2025 e dove la classe media e medio-alta della popolazione conterà fra 10 anni ben 141 milioni individui in più rispetto a oggi. “Parlare della Cina come di un Paese emergente per l’industria della moda è ormai fuori luogo, sarebbe meglio definirlo piuttosto un Paese emerso”, dice David Pambianco, amministratore delegato di Pambianco Strategie d’Impresa, società di consulenza specializzata nel settore del fashion.
Un anno col vento in poppa
I numeri citati fanno dunque ben sperare i marchi del lusso made in Italy, almeno quelli che in Oriente sono presenti da parecchio tempo e che con l’export sono riusciti a compensare l’andamento claudicante del mercato interno. Anche quest’anno, proprio grazie all’export, l’industria italiana del fashion sta facendo registrare buone performance. Secondo le previsioni della Camera Nazionale della Moda, comunicate dal presidente Carlo Capasa durante la presentazione delle sfilate femminili milanesi di fine settembre, il comparto del lusso made in Italy (che oltre all’abbigliamento include le pelli, le calzature e gli accessori griffati) chiuderà il 2017 con un fatturato complessivo di 86 miliardi di euro, in crescita del 3% su base annua, cioè a un tasso doppio rispetto a quello del pil nazionale. Positivo anche l’andamento del solo comparto tessile (escludendo gli accessori) che vale nel complesso 53 miliardi di euro e che nel 2017 dovrebbe crescere a un ritmo dell’1,8% (dati di Sistema Moda Italia), ritornando a un giro d’affari in linea con quello precedente la crisi del biennio 2007-2008. Nel complesso, le esportazioni hanno raggiunto una quota di oltre il 55% dell’intero giro d’affari del settore e sono cresciute dal 2010 a oggi di circa il 21%. Di segno contrario invece il numero di addetti delle aziende del comparto tessile-moda che, sempre durante l’ultimo decennio, sono diminuiti di oltre 20 punti percentuali, da circa 540mila a poco più di 400mila unità. Mentre ingrassavano i fatturati delle imprese, insomma, dimagrivano i loro organici. Segno evidente che diverse aziende del fashion made in Italy si sono ampiamente ristrutturate, aumentando la produttività dei loro dipendenti e spostandosi su merci a più alto valore aggiunto.
Made in Italy o Italian style?
La fotografia della moda italiana che emerge dalle statistiche, dunque, è quella di un’industria in salute. Sarà così pure nei prossimi anni? Ci sono buone ragioni per essere ottimisti anche se è bene che gli operatori del settore non si adagino troppo sugli allori viste le sfide assai impegnative che si trovano di fronte. “Credo che non si debba commettere l’errore di fare troppa retorica sulla potenza dell’Italian syle, credendo che rappresenti sempre un passaporto per avere successo su qualsiasi mercato e in qualsiasi momento”, dice Pambianco. Piuttosto, secondo il consulente milanese, dobbiamo rallegrarci della forza industriale dimostrata in questi anni dal made in Italy, cioè del fatto che molte produzioni del fashion sono rimaste dentro i confini della Penisola, grazie alle capacità artigianali e al know how presenti nel nostro Paese. “Forse molti non lo sanno ma circa il 70% delle produzioni di calzature da donna di alta gamma si concentra ancora in Italia”, aggiunge Pambianco, “così come molte lavorazioni di altri settori legati alla moda e alla bellezza come quello della cosmetica”. È bene dunque far tesoro di questo nostro patrimonio industriale, tenendo conto però di un aspetto tutt’altro che trascurabile: gli acquirenti di beni di lusso sono consumatori globali, che amano un marchio o uno stilista solo perché va incontro ai loro gusti, non certo per la nazione da cui proviene. “Il mercato del fashion di lusso è per sua natura un mercato metropolitano, che si concentra nelle grandi città”, spiega Andrea Bonardi, esperto di internazionalizzazione di aziende del lusso, ex-presidente della Camera di Commercio italiana a Singapore e fondatore di Texere Advisors, società di consulenza che accompagna le piccole e medie imprese nello sviluppo all’estero della loro rete di commercio retail. Per Bonardi, che in passato ha guidato la filiale in Asia de La Perla e curato l’apertura di 40 negozi nella regione del Pacifico e 20 in altri Paesi emergenti, i marchi del lusso che vogliono essere vincenti in futuro devono dunque avere una presenza con i loro store nei centri nevralgici del commercio dell’alta moda, ormai spostatisi sempre più nelle grandi aree metropolitane fuori dall’Europa. Come hanno scritto gli analisti di McKinsey nel report The State of Fashion, in futuro molte aziende dovranno basare le loro politiche commerciali su strategie urbane, calibrate sulle caratteristiche delle singole grandi città piuttosto che in base al Paese in cui queste si trovano.
La carica dei Millennial
C’è poi un’altra sfida che, in un mondo sempre più globalizzato attende le case di moda italiane. È quella per la conquista dei Millennial, la generazione di giovani nati dopo il 1980 che diventeranno in futuro una fascia di clienti sempre più importante. Nel prossimo decennio, secondo le proiezioni demografiche, i redditi di questo esercito di “giramondo” allevati nell’era di internet e dei voli low cost cresceranno a un tasso pari a 7 volte e mezzo rispetto ai redditi dei baby boomer (i nati tra il 1946 e il 1964). Cercare di intercettare i gusti dei Millennial è dunque una strategia irrinunciabile che, secondo Pambianco, deve però partire da una considerazione: “Con l’avvento della globalizzazione stanno diventando sempre meno importanti le differenze geografiche mentre si sono accentuate quelle generazionali”. In altre parole, a detta del consulente, oggi ci sono molti più punti in comune nei gusti di due ventenni che abitano a migliaia di chilometri di distanza tra loro, per esempio a Milano e Shanghai, che non tra le preferenze di un ventenne e di un sessantenne che vivono invece nella stessa città e nello stesso Paese. La pensa così anche Bonardi che mette però in guardia anche da troppo facili entusiasmi.
Consumatori più esigenti
“Credo che l’era delle vacche grasse sia ormai finita”, dice il fondatore di Texere Advisors, sottolineando come i consumatori di tutte le generazioni, dai baby boomer ai Millennial, siano oggi molto più esigenti di un tempo, visto che dispongono grazie a internet di una mole enorme di informazioni sui prodotti e sui prezzi e non sono certo disposti a riporre ciecamente lo loro fiducia in un marchio, solo perché allettati dal suo prestigio. Fatte queste premesse, Bonardi ritiene tuttavia che alcuni segmenti di mercato potranno dare ancora grandi soddisfazioni alle aziende italiane del lusso, almeno in certe aree geografiche a forte espansione come l’Asia. “L’area del Pacifico, inclusa anche l’Australia, resta attualmente il mercato più interessante”, dice Bonardi sottolineando come la crescita della classe media nei paesi asiatici stia facendo salire l’attenzione verso alcuni segmenti di mercato che finora sono rimasti un po’ in secondo piano rispetto all’alta moda femminile. È il caso dell’abbigliamento maschile e per i bambini, dell’arredamento e dello sportwear. A livello geografico, secondo il manager di Texere Advisors, è oggi difficile trovare zone del globo che stanno attraversando le stesse dinamiche che sta vivendo l’Asia. Fatta eccezione per la Russia dove c’è una ripresa, si evidenzia infatti un calo nel Medio Oriente mentre il Sud America e l’Africa restano due promesse che devono ancora manifestare tutte le proprie potenzialità. “Se ragioniamo in un’ottica di medio e lungo termine, guardando ai prossimi 20 o 30 anni”, dice però Pambianco, “probabilmente i marchi della moda dovranno essere presenti in forze anche in questi due continenti”. In attesa che ciò accada, tuttavia, i clienti più ambiti dal fashion made in Italy restano loro: i milioni di nuovi ricchi cinesi e del sud-est asiatico. Ad aspettarli, in via Montenapoleone, c’è sempre un sorriso e una tazza di tè.
I DATI DEL SISTEMA ITALIA
Un quinquennio in crescita-Il fatturato del settore tessile nel nostro Paese
Tra il 2013 e il 2018, seppur tra alti e bassi, il settore del tessile-moda made in Italy ha evidenziato un trend di crescita del fatturato e una notevole forza anche sui mercati internazionali. Circa il 55% dei prodotti finisce all’estero.
Anno | Fatturato in miliardi di euro | Export in miliardi di euro |
2010 | 49,66 | 24,6 |
2011 | 52,76 | 26,9 |
2012 | 51,09 | 26,95 |
2013 | 50,7 | 27,4 |
2014 | 52,06 | 28,4 |
2015 | 52,4 | 29,05 |
2016 | 52,85 | 29,6 |
2017 | 53,08 | 29,96 (Fonte: Smi-Sistema Moda Italia) |
Dove piace il made in Italy
Forse molti non lo sanno ma il principale mercato di sbocco della moda italiana è la Francia, nonostante la concorrenza dei marchi transalpini. Seguono a ruota la Germania e gli Stati Uniti. Nell’ultimo decennio c’è stato però un boom delle esportazioni verso la Cina, che sono quasi triplicate (dai 600 milioni di euro del 2016 si è passati a 1,7 miliardi di euro nel 2016.
Paese | Valore Export in miliardi di euro |
Francia | 5,1 |
Germania | 4,5 |
Stati Uniti | 3,8 |
Regno Unito | 2,9 |
Spagna | 2,4 |
Cina | 1,7 (Fonte: Studi e Ricerche Mps su dati Istat-dati 2016) |
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