Quando Amazon Prime Video ha aperto i battenti sul suolo italiano in molti hanno scrutato nella sua offerta alla ricerca della serie tv in grado di scalzare Netflix dalle menti e dai cuori degli appassionati di streaming. Ma il vero punto di svolta non era né The Man in the High Castle, né la serie di Preacher e neppure American Gods, ma un programma dedicato a tre inglesi particolarmente antipatici e bravi a parlare di automobili: The Grand Tour.
In quest’epoca in cui si cerca giustamente di essere sempre gentili e inclusivi con ogni tipo di etnia, razza, sesso, credo e idea, la storia di The Grand Tour è una sorta di contromano sul viale del politically correct, eseguito agitando bene in vista il dito medio. Tutto nasce il 4 marzo del 2015. Jeremy Clarkson è stabilmente alla conduzione di James May e Richard Hammond in Top Gear, gemma della Bbc e uno dei programmi televisivi più famosi e visti del mondo, di sicuro l’unico che è riesce a coniugare intrattenimento e passione per le auto in ogni loro forma.
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Clarkson è un personaggio noto per le sue intemperanze e per la sua attitudine violenta e vagamente xenofoba, che esplode all’improvviso per una banale lite a causa del catering: il tutto termina tra insulti razzisti, botte e il suo susseguente allontanamento da Top Gear, a cui segue l’abbandono anche dei suoi due compagni di viaggio, che non se la sentono di continuare lo show senza il terzo moschettiere. In fondo, dopo così tanti anni ci sta anche di fermarsi, no?
A questo punto la morale vorrebbe Clarkson, ormai vicino alla sessantina ed esiliato da ogni schermo televisivo, che si rilassa e si gode i soldi accumulati e le auto della sua collezione privata. Invece no. Alla gente non importa assolutamente niente del suo carattere o della sua indole: vogliono solo sentirlo parlare di auto. Di questo si accorge Jeff Bezos, che ha un disperato bisogno di contenuti per la sua piattaforma video, riforma il trio Clarkson-Hammond-May, li riempie di soldi e gli lascia carta bianca. I tre sono di nuovo in pista e ritrovano la storica alchimia. Hammond è quello simpatico ed energico, May sembra uscito da un film dei Monty Python e Clarkson fa ciò che sa fare meglio, risultare antipatico e avere spesso ragione. Il risultato è The Grand Tour, uno show completamente folle a base di auto fatte di ossa di animali, splendidi paesaggi toscani, assurde avventure nel deserto della Namibia. E che sì, ogni tanto parla anche di automobili.
Ogni puntata della trasmissione costa probabilmente quanto un’intera stagione di supereroi Marvel su Netflix. I tre si divertono, girano il mondo, cazzeggiano, si prendono in giro e soprattutto riescono a trasmettere amore e competenza per l’automobilismo senza annoiare un secondo, risultando credibili e contemporaneamente fuori di testa. Immaginate Amici miei, ma con più cavalli motore. Senza dubbio uno show estremamente maschile come impostazione, impregnato di cameratismo e pensato per un pubblico adulto di signori di mezza età che tengono la Bentley in garage per le gite domenicali, o corrono le coppe storiche con la loro Testarossa. Ma il citazionismo, la forte spettacolarizzazione e l’umorismo di bassa lega riescono incredibilmente a risultare trasversali. Inoltre, se vi piacciono le auto non farete molto caso al sesso di chi le guida.
Il tutto è girato con una cura incredibile e un taglio cinematografico impensabile per un semplice documentario a base di auto. Il risultato è che dopo aver visto The Grand Tour vorreste che tutti gli show fossero così: pensati con questa cura, questa capacità di vivere a metà tra cinematografia, divulgazione e televisione, sempre col piede sull’acceleratore, senza limiti, come una Ferrari che morde la strada della campagna modenese. È come se i tre avessero divorziato da Top Gear per mettersi con la sua versione più giovane, più estrema e più ricca. Il costo per ogni episodio è stimato in circa 5,5 milioni di dollari e sul piatto ci sono circa 30 milioni di dollari per almeno tre stagioni.
In queste ore la seconda stagione è finalmente disponibile su Amazon Prime Video: e la cosa non era scontata, visto che Hammond ha rischiato la vita in un bruttissimo incidente mentre girava la prima puntata, mentre Clarkson è quasi morto di polmonite. Il risultato di tutto ciò è che lo show non ha più un set itinerante, ma è posizionato nella campagna inglese, anche se sono comunque presenti i viaggi in tutto il mondo. La speranza è che The Grand Tour si confermi una mosca bianca nel panorama televisivo mondiale, con tutta la sua irriverenza, qualità e amore per le quattro ruote. Una favolosa dimostrazione che per fare le cose bene non ci vuole la persona più gentile, ma la più brava.
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