Vent’anni fa moriva il signore del teatro milanese, Giorgio Strehler. Con lui, Milano perdeva una delle anime motrici della sua rinascita postbellica. Era il 1947 quando a soli ventisei anni fondò il Piccolo Teatro di Milano insieme a Paolo Grassi e Nina Vinchi. Al motto di “Teatro d’Arte per tutti” diede vita al primo teatro stabile pubblico d’Italia, un teatro che si apriva alla città offrendo spettacoli “alti” al più vasto pubblico possibile. Sullo sfondo, una Milano che ripartiva dalle macerie, la fame di riscatto, la voglia di ricostruire e di emergere. Con il suo teatro di regia, Strehler contribuì a ridisegnare l’identità culturale della città. Al centro della sua opera, l’uomo: messo sotto una lente di ingrandimento, analizzato nelle sue interazioni con la società, la politica e la propria interiorità. Attraverso i grandi classici – da Shakespeare fino a Brecht, Pirandello, Verdi e Cechov – Strehler raccontava l’umanità del teatro, metteva in scena l’uomo in tutta la sua complessità atemporale e insieme contemporanea. “Il teatro, proprio perché teatro, anche mentre si sta preparando, è sempre e soltanto un profondo atto d’amore, un atto completamente «umano»”, diceva.
Oggi, l’anniversario della sua morte è l’occasione per riflettere sul suo lascito con la mostra-laboratorio Strehler fra Goldoni e Mozart a Palazzo Reale. Non un classico tributo alla carriera, non un “viaggio alla scoperta di”, ma un racconto d’amore sull’incontro con l’opera settecentesca di Goldoni e Mozart. Il primo rappresenta il teatro in prosa e il lavoro del regista al Piccolo Teatro, la sua casa. L’altro è l’opera lirica, il Teatro alla Scala, per il quale firmò trentacinque regie tra il 1947 e il 1990, per un totale di 480 repliche. Entrambi gli autori furono fondamentali per la sua produzione teatrale. Prosa e opera lirica si sono intrecciate più volte nel suo percorso, si sono intrise vicendevolmente di suggestioni e di citazioni. A Palazzo Reale, la Sala delle Cariatidi è un trionfo di costumi, bozzetti, oggetti di scena, video, fotografie, stralci di sceneggiature. Da un lato, le interpretazioni dell’opera di Mozart. C’è il Don Giovanni, portato alla Scala nel 1987 con le scenografie di Ezio Frigerio e la direzione di Riccardo Muti. Fu uno dei personaggi più cari a Strehler: nessuno meglio di lui riuscì a restituirne lo spirito anticonformista e la sete di libertà. Un’opera buia, notturna, che lasciava trapelare quella sensazione di morte che attanagliava Strehler negli ultimi anni di vita. Il Don Giovanni lo influenzò a tal punto da indurlo a modificare il finale de l’Arlecchino servitore di due padroni, avvolgendolo nelle tenebre. Per Mozart provava un’ammirazione estatica: “Quanta densità, quanta lievità in ogni suo gesto di teatro. Come ha fatto a saperne tanto? Come ha potuto farsi padrone della dinamica, delle possibilità anche tecniche e meccaniche di linguaggio, di comunicazione? La grandissima difficoltà di mettere in scena Mozart nasce proprio da questa sua sapienza, da questa sua infallibilità”. Insieme al Don Giovanni, ci sono le Nozze di Figaro, il Ratto del Serraglio e Così fan tutte, ultimo spettacolo del regista. Con lui si inaugurò la nuova sede del Piccolo, il Teatro Strehler. Il destino fu però beffardo: Strehler morì durante le prove, non riuscendo ad aprire il teatro a suo nome.
Dall’altro lato della sala, invece, ci sono gli omaggi ai testi di Goldoni. L’Arlecchino, Il Campiello, Le Baruffe Chiozzotte, La Maschera. Per Le Baruffe, Strehler portò gli attori a Chioggia a imparare il dialetto, li immerse nei luoghi descritti da Goldoni, tra i pescatori del porticciolo. Di Goldoni amava la capacità di ritrarre la gente semplice, di rivolgersi direttamente al loro cuore. Di lui diceva: “Scriveva per le persone, gli attori devono trovare dentro di loro i personaggi. Non bisogna smorzare nulla, perché lui trovava la sua forza nell’essere sincero. Non bisogna avere paura di cogliere la realtà dei luoghi e delle condizioni di vita, ci può essere più poesia tra i pescatori di Chioggia che in un salotto di letterati”. Goldoni scriveva per necessità, per soldi. Una condizione deplorevole per gli intellettuali del tempo, una dimostrazione di grande professionismo per Strehler. Era affascinato dal suo modo di parlare al popolo: “Il popolo non è popolaresco”, ripeteva. E qui torna l’amore del regista per l’uomo, per la rappresentazione della verità insita in lui. Per Strehler, del resto, la chiave della salvezza era proprio il teatro. Disse Valentina Cortese, sua musa e amante: “In lui c’era la convinzione che l’unica cosa che può salvarci è il teatro. Era la sua fede. Una volta incontrò il Cardinale Martini e gli disse: «La prego con il mio lavoro in palcoscenico»”. La mostra Strehler fra Goldoni e Mozart rimarrà in scena a Palazzo Reale fino al 4 febbraio 2018.
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