Davanti a me e osservato da migliaia di occhi, Niclas Mouritzen, “Pengu” per i fan, sta pianificando con i suoi compagni la migliore strategia di incursione. Danese, classe 1998, con un fucile automatico in mano, Pengu è uno dei fuoriclasse dei Penta Sports, il team nord europeo che in questo momento ha il compito di disinnescare una bomba sorvegliata dal nemico, gli americani Evil Geniuses.
Tranquilli, nessun pericolo imminente e men che meno reale: siamo al Tohu di Montréal, in Canada, un palazzetto da queste parti noto come la “mecca del circo”. Stavolta, però, i saltimbanchi sono i videogiocatori radunati al Six Invitational 2018, l’evento più importante per la community dello sparatutto Tom Clancy’s Rainbow Six: Siege. Le 16 migliori squadre al mondo dello shooter tattico pubblicato da Ubisoft sono venute qui per contendersi un montepremi di 500mila dollari in tutto. Penta Sports ed Evil Geniuses stanno giocandosi i 200mila in palio nella finale. Sono a un’azione dall’epilogo. L’arena respira con loro.
Quello di Rainbow Six: Siege è un caso significativo: già dal titolo dovrebbe suggerire anche ai non esperti quanto, oggi, il gaming sintetizzi interessi culturali e commerciali ampi. Circa i primi, basterebbe sapere che più che uno scrittore, in ambito videoludico Tom Clancy è un marchio, è la griffe di una serie di produzioni che in modo diverso giocano con i temi che furono cari al romanziere: spionaggio e terrorismo tecnologico.
Quanto agli interessi economici, potrebbe bastare qualche dato reso noto proprio al Six Invitational. Pubblicato a fine 2015, Rainbow Six: Siege oggi conta 25 milioni di giocatori unici, 25 milioni di persone che hanno lanciato il gioco almeno una volta. Solo in Italia, in questi due anni gli utenti hanno superato il milione e con, ciascuno, 40 giorni di media trascorsi a giocarci. In altre parole, mentre c’è chi ha verosimilmente abbandonato “R6” dopo una prova veloce, per altri le sue battaglie claustrofobiche sono un impegno consistente e abituale.
Il segreto di questo successo riporta dritto alla finale davanti a me e a campioni come Pengu: si chiama e-sport, la pratica competitiva e professionistica del videogioco. La storia di Rainbow Six è utile per chiarire la portata del fenomeno e-sportivo. Dopo un debutto falcidiato da problemi tecnici anche piuttosto gravi e seguito da un imponente “restauro”, il titolo è cresciuto fino ad accedere a quello che è il sacro Graal dell’industria del gaming, la fonte di eterna giovinezza cui ogni gioco elettronico oggi ambisce: è riuscito a diventare, appunto, un e-sport, una competizione internazionale disputata a livello professionistico da un crescente gruppo di atleti e seguita da un’ancora più consistente comunità di fan.
“Che Raibow Six si affermasse come sport, all’inizio era un sogno”, ha spiegato a Montréal Alexandre Remy, brand director di Ubisoft, “essere a pochi passi da un’arena stracolma di fan urlanti adesso è una realtà”. Detto in termini meno sognanti, non è un caso che oggi quasi ogni prodotto di intrattenimento interattivo venga progettato contemplandone anche l’approccio agonistico. Appunto, è l’e-sport (ready) bellezza, panacea digitale di ogni male con proiezioni che si aggiornano costantemente al rialzo.
Secondo il rapporto annuale di Newzoo pubblicato ieri, il giro d’affari globale degli sport elettronici lambirà i 906 milioni di dollari entro dicembre, con un tasso di crescita annuale composto del 14,4% fra il 2016 e il 2021. Significa che entro 3 anni il gaming competitivo muoverà 1,65 miliardi di dollari. Ed è indicativo come gli stessi osservatori 12 mesi fa prospettassero un orizzonte di 150 milioni più basso.
Vuol dire che l’ingresso nel mercato dei colossi dello sport tradizionale – con in testa Nba, MotoGp, o squadre come la Roma in Italia – sta iniettando fondi imprevisti e soprattutto fiducia ad altri investitori. Mentre all’estero il settore automobilistico sta rivelandosi prezioso – stricto sensu – per il sostegno dell’esport, con in prima linea aziende come Audi, Renault e Mercedes, in Italia l’anno scorso addirittura Banca Intesa ha investito in tornei di Pro Evolution Soccer, storica simulazione calcistica di Konami. Dei 655 milioni di dollari mossi dallo sport elettronico nel 2017 (+33% anno su anno), 468 sono arrivati dalla vendita dei diritti di messa in onda, dalla pubblicità e dalle sponsorizzazioni. Il motivo, anche secondo il ceo di Newzoo, Peter Warman, è semplice: oggi l’esport intercetta un pubblico anagraficamente molto giovane (i 18-35enni costituiscono il 59% degli appassionati) e sempre meno interessato ai media tradizionali. Le discipline elettroniche mescolano l’agonismo tradizionale ai due passatempi più diffusi sotto i 25 anni: videogiocare o guardare chi lo fa.
Inevitabile che sponsor extrasettore stiano arrivando come api sul miele; oltre all’automotive lo dimostrano i cospicui investimenti di Coca Cola, Red Bull, Adidas, Nike, Under Armor, Telecom o Samsung. E, in fondo, lo conferma il Comitato Olimpico Internazionale quando fa sapere di non escludere dal novero degli sport tout-court la loro evoluzione digitale. Perché c’è una caratteristica degli sport elettronici che nemmeno le cifre più accurate riescono a trasmettere: proprio come le discipline tradizionali, un e-sport destinato a durare nel tempo nasce dal basso. Esplode solo quando il pubblico ravvisa il bilanciamento perfetto di un gioco e la sua capacità di trasformare un talento in un campione da amare.
Come Niclas Mouritzen, più noto come Pengu. Danese, 20 anni, dopo aver concordato la strategia coi compagni di squadra si è ritrovato unico sopravvissuto contro due avversari. Ma a due secondi dalla fine del match, con migliaia di occhi addosso, sono loro a fare un errore fatale. Gli si sovrappongono sulla stessa linea di tiro. Il pubblico esplode. Due secondi dopo, Pengu e i Penta Sports sono campioni del mondo di Rainbow Six: Siege. Abituiamoci: il futuro degli sport passa da qui.
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