Nel corso della sua assemblea annuale, AssoFintech ha presentato un tavolo di lavoro sugli asset digitali (criptovalute e token), nel quale intende discutere con la sua base associativa problemi e soluzioni da rappresentare alle istituzioni nell’ambito della propria attività istituzionale di advocacy. Per inquadrare bene il fenomeno è utile partire da un’analisi di base, almeno in relazione ai tre temi principali di discussione, quello civilistico, quello monetario e quello finanziario.
La qualificazione
Dal punto di vista civilistico, criptovalute e token non sono qualificabili come beni giuridici.
Infatti, non sono beni materiali, poichè in entrambi i casi si tratta di sequenze numeriche. Non deve trarre in inganno la brillante denominazione del “token” in quanto, ben lungi dall’essere un gettone, esso non è altro che un blocco di testo categorizzato, costituito da caratteri indivisibili (i cosiddetti lessemi).
Non sono nemmeno beni immateriali, in quanto nel nostro ordinamento giuridico i beni immateriali sono tipici e gli asset digitali non rientrano tra quelli previsti dal legislatore.
Qualcuno ha ipotizzato di qualificare gli asset digitali come documenti informatici sulla base del CAD (Codice della Amministrazione digitale), ma anche questa strada non è perseguibile in quanto essi non sono rappresentazione digitale di qualcos’altro, ma oggetto essi stessi del valore detenuto o scambiato. La miglior definizione dei digital asset, quindi, è quella che negli ultimi mesi è stata fornita da Eba, Bce ed Esma: criptovalute e token sono rappresentazioni digitali di valore non emesse da Banche Centrali o autorità nazionali, utilizzate come mezzo di scambio o scopo di investimento. In proposito è anche utile rammentare l’avvertenza della Banca di Italia che ha avallato questa definizione precisando tuttavia che il termine “valuta” può essere utilizzato per identificare il fenomeno, ma senza esprimere giudizi sulla natura degli asset digitali in discussione.
Il mezzo di scambio
Analizzando l’uso delle criptovalute come mezzo di scambio, è evidente che esse non sono qualificabili come moneta secondo la c.d. teoria statalista. Questa stabilisce che soltanto lo Stato sovrano può creare moneta avente corso legale e corso forzoso. Il corso legale è quello che attribuisce alla moneta il potere liberatorio, cioè il potere di estinguere obbligazioni. Il corso forzoso, invece, comporta l’obbligo dei cittadini di accettazione della moneta avente corso legale. Si tratta di due caratteristiche inconciliabili con la natura della criptovaluta, di cui esistono al momento circa 2.000 diverse specie, la maggior parte delle quali scarsamente diffuse. D’altra parte, una lettura basata sulla c.d. teoria economica non porta a conseguenze diverse: le funzioni della moneta secondo la teoria economica sono di mezzo di scambio, riserva di valore ed unità di conto. La conclamata volatilità delle criptovalute, soprattutto negli ultimi tempi, rende poco credibile una loro lettura in questo senso. In effetti, nel corso dell’ultimo G20, il Financial Stability Board ha chiaramente affermato che le criptovalute non realizzano le funzioni chiave di una moneta sovrana.
Anche analizzando la Direttiva PSD2 non risulta possibile qualificare le criptovalute come strumento di pagamento, caratteristica attribuita specificamente soltanto a banconote e monete, moneta elettronica e moneta scritturale. Peraltro una figura tipica e caratteristica del sistema della PSD2, quella del gestore dei servizi di pagamento, è radicalmente inconciliabile con il sistema distribuito (DLT) caratteristico delle criptovalute: non è un unico soggetto a perfezionare o documentare l’operazione, ma l’intera rete certifica le operazioni registrate sulla blockchain.
Al contrario, per specifiche finalità altre norme tendono ad equiparare valute e criptovalute. In particolare, la normativa antiriciclaggio ora stabilisce che chiunque fornisca a titolo professionale servizi funzionali all’utilizzo, lo scambio, la conservazione e conversione di criptovalute viene equiparato a chi svolge l’attività di cambia-valute; quindi anche chi professionalmente (cioè nell’esercizio di un’attività commerciale) accetti pagamenti in bitcoin o ether ha gli stessi obblighi non banali di chi cambia euro, sterline, dollari, ecc…
Le conseguenze principali sono:
a) l’obbligo di attenersi alle prescrizioni della normativa antiriciclaggio;
b) l’obbligo di sottoporsi ad un censimento che prevede l’iscrizione all’OAM (l’Organismo degli Agenti e Mediatori), la comunicazione al MEF dell’operatività e delle transazioni eseguite.
Un altro caso di equiparazione ha visto come protagonista la Corte di Giustizia (caso Hedqvist, C-264/14), che ha dichiarato esente Iva l’attività degli exchange, assimilandoli ai cambia-valute sul presupposto che le criptovalute non sono beni materiali e che svolgono la stessa funzione di mezzi di pagamento. Tale indicazione è stata puntualmente recepita da una risoluzione dell’Agenzia delle Entrate (n. 72 del 2.9.2016).
Lo scopo di investimento
Dal punto di vista delle attività di investimento, le criptovalute che abbiano una funzione di strumento di pagamento non sono strumenti finanziari (art. 1.2 TUF). Ricadono invece nella categoria dei prodotti finanziari quando costituiscono una forma di investimento di natura finanziaria. Ciò avviene, secondo il costante orientamento della Consob, ove ci sia:
a) un impiego di capitale;
b) una aspettativa di rendimento;
c) l’assunzione di rischio.
Si tratta di una situazione più comune per le Ico, nelle quali vengano offerti dei token rispetto all’offerta della criptovaluta in quanto tale. Tuttavia in due casi recenti la Consob ha vietato l’attività di società che proponevano dei portafogli di investimento in criptovalute (Cryptrade, 20207/17; Coinspace 19866/17), proprio perché lo scopo era di investimento. Escludendo i cosiddetti utility token, corrispondenti ad un “buono acquisto”, quasi tutti i token hanno la natura di prodotti finanziari. In molte ICO si cerca di dissimulare la reale natura dei token, ma un ordinario esame del white paper consente di verificare la reale natura dell’offerta. Invero, è molto frequente riscontrare in detto documento un paragrafo contenente indicazioni di “token economy”, cioè le ragioni per le quali il valore del token sarebbe destinato a crescere in futuro. Se il token è un “buono acquisto”, invece, non vi è ragione che il suo valore cresca.
Ogniqualvolta i token siano dei prodotti finanziari, dunque, è necessario applicare la normativa finanziaria concernente l’offerta al pubblico, il prospetto (sopra i cinque milioni di euro), l’attività degli intermediari ecc..
Quasi tutte le autorità finanziarie nazionali stanno prendendo posizione in questo senso, arginando così l’euforia degli ultimi mesi per le Ico. A tale atteggiamento restrittivo si aggiunge l’approccio fortemente conservativo annunciato da Google, Facebook e Twitter che entro il prossimo giugno renderanno definitivamente efficace l’annunciato divieto di pubblicità delle Ico sulle loro piattaforme.
Ma non mancano iniziative per sostenere lo sviluppo di questa innovativa forma di raccolta di risorse finanziarie: ad esempio, il Ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire ha dato incarico all’ex-Governatore della Banca di Francia di studiare e redigere una normativa per le Ico, in linea con l’iniziativa già assunta dalla Finma in Svizzera. AssoFintech ha già effettuato un primo incontro con la Consob, nel quale ha rappresentato alcune possibili soluzioni per effettuare Ico nel nostro Paese. Su tutti questi temi, AssoFintech attende ora dai propri associati indicazioni, proposte, soluzioni per aiutare l’Italia a qualificarsi prima possibile come hub internazionale per la gestione degli asset digitali.
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