Forbes Italia
Cultura

Due parole con l’autore del romanzo del momento

La copertina di “Mio assoluto amore”.

Gabriel Tallent ha soltanto trent’anni, ma può vantare traguardi che i migliori scrittori di norma non raggiungono nemmeno in tarda età: il suo romanzo d’esordio, My Absolute Darling, è stato la più bella novità della narrativa americana del 2017, lodata dal New York Times e da Stephen King, che l’ha definita “un capolavoro” che se la gioca ad armi pari con Il buio oltre la siepe e Comma 22. Turtle è un’adolescente ribelle e introversa che vive in condizioni di povertà e completa emarginazione in compagnia del padre Martin, che abusa di lei sessualmente e psicologicamente. Sullo sfondo c’è una California settentrionale fatta di boschi e torrenti e contornata da una vegetazione lussureggiante ma ombrosa, come la storia che avvolge i personaggi del romanzo. Del libro di Tallent colpisce innanzitutto la prosa coinvolgente, abbastanza distaccata e sfumata da essere “vera” ma anche bastantemente precisa da risultare empatica, a tratti persino dolce.

Ora che Mio assoluto amore è uscito in italiano – edito da Rizzoli con la traduzione di Alberto Cristofori – abbiamo incontrato Tallent nella precaria e accalorata quiete della hall di un albergo del centro di Milano. Lui, rilassato nonostante la giornata densa di colloqui con la stampa, ci ha spiegato com’è nato il suo “capolavoro”, perché dovremmo smetterla con lo stereotipo dello scrittore à la page, e quanto c’è della sua infanzia nelle sue pagine.

Domanda a bruciapelo: consideri Turtle un personaggio femminista? Perché se stesse a me dirlo, direi di sì, dato che pagina dopo pagina dà l’idea di essere vero: ha una personalità sfumata, è sinceramente innamorata del padre che abusa di lei e allo stesso tempo vuole sfuggire al suo controllo… eccetera.

Mi scontro con quest’idea, perché Turtle non lo è, di fatto, no? Sono stato cresciuto in una casa femminista. Ci sono quelli che obiettano sugli uomini che si definiscono femministi, ma io preferisco sottrarmi a questa polemica, non ho sentimenti così forti in questo senso: posso dire che il mio progetto è femminista, che le mie intenzioni di certo lo sono… Allo stesso tempo, non voglio scrivere un libro con scopi didattici, non aspiro a un manifesto femminista. È il mio tentativo di rendere limpidamente una giovane ragazza con una sua dignità e una sua innocenza. Non riuscirei a dire che Turtle è una femminista, perché non è un’icona.

Martin, d’altra parte, è un filosofo autodidatta con un suo spessore, una persona che ama sinceramente la propria figlia. Sembra del tutto distante dall’immagine stereotipata del pedofilo. Come mai hai reso questo personaggio in maniera così diversa?

Credo che ci affidiamo agli stereotipi perché immaginiamo che la violenza non sia perpetrata da persone che conosciamo: ci piace pensare che siano altri a commetterla, in altre parti del Paese, persone “lontane” di classi disagiate. Creiamo una prospettiva per cui il male succede da un’altra parte, non nella nostra comunità, non è parte della nostra cultura. Questa non è stata la mia esperienza, però: la mia esperienza è che la violenza è commessa e perpetrata da uomini molto diversi, e limitarla a un gruppo ristretto di persone è mettersi una benda sugli occhi, e – peggio – un modo per scagionare da ogni colpa la nostra cultura fatta di misoginia. Ma il problema è proprio culturale, e dobbiamo affrontarlo seriamente guardandolo in faccia.

La tua infanzia “boschiva” nella California del nord ha avuto un ruolo preponderante nella realizzazione del libro: sei cresciuto a Mendocino, un paesino sulla costa pacifica, e hai già avuto modo di dire che Mio assoluto amore è diventato ciò che è durante il primo periodo di tempo prolungato che hai passato lontano da casa. 

Volevo scrivere di un posto che conosco e amo, e in generale credo sia importante parlare di ciò che si conosce bene invece di affidarsi a giudizi superficiali (intendo “superficiali” nel senso di facilmente raggiungibili, poco profondi). Credo sia importante scrivere con una visione maturata grazie a un serio coinvolgimento con la materia di cui si tratta, e questo per me si traduce nello scrivere di posti che conosco.

Quando sei diventato uno scrittore? C’è un momento che ricordi in cui ti sei detto “ok, questo è ciò che voglio fare nella vita”? Com’è andata? 

Ho sempre scritto. Non so quando sono diventato uno scrittore, non l’ho mai considerata una via percorribile: non scrivo per essere uno scrittore, scrivo perché ne ho bisogno. La scrittura è una cosa che mi appassiona, mi piace alzarmi al mattino e mettermi a scrivere, rimettendo i romanzi che sto leggendo nella libreria. Con questo romanzo ho fatto esattamente questo: non c’era “premeditazione” di diventare uno scrittore, volevo solo inventare persone e fatti.

Faccio fatica a rispondere a questa domanda perché spesso ci inventiamo un’immagine glamour dello scrittore – “hanno queste prassi, questa identità, questi riti…” – il che mi preoccupa perché ne discenderebbe che gli scrittori sono persone particolari, ricercate, ma l’unica verità è che tutti possono fare gli scrittori. Temo che questa narrazione abbia l’effetto collaterale di scoraggiare chi non vi rientra appieno. Io non sono mai stato bravo a scuola, so appena fare lo spelling: se mi avessi chiesto se volevo fare lo scrittore, avrei pensato che sarebbe stato da pazzi. Cerco di andare contro i miti che circondano la scrittura e dire semplicemente che consiste nello scrivere ogni giorno, per quanto possibile. L’immagine “hemingwayana” dello scrittore può danneggiare, ad esempio, una madre single che ha una storia da raccontare ma non sente di poter essere “una scrittrice”.

Gabriel Tallent, autore di “Mio assoluto amore” (Rizzoli).

In questi anni, la natura è l’ultimo grido nel mondo della letteratura, tanto che una nuova espressione è diventata il passepartout di recensori e addetti ai lavori più e meno improvvisati: nature writing. Cosa pensi di questo trend, e quali sono – per te – i suoi limiti?

Di recente non ho letto un libro con una seria e meritevole descrizione della natura, per cui mi sento disorientato. Come faccio a trovare questi libri di cui mi parli? Dove sono? [ride]

Diciamo che ne è uscito qualcuno, e i detrattori della pratica pensano che si tratti di un’oggettivazione della natura che in fondo si limita a un escapismo di maniera. Una moda, insomma.

Non posso pronunciarmi su questo, perché io adoro la natura, sono cresciuto fra lande selvagge e volevo assolutamente inserirle nel mio libro. Non credo che farlo per seguire una moda possa rivelarsi apprezzabile, nel medio e lungo termine. Quel che posso dire è che non ne potevo più di libri incentrati sulla prospettiva umana, in cui una trama con soli uomini si dipana in città abitate da uomini: è un modo del cazzo di guardare alla vita.

Sei stato – o sei ancora, magari – un avido lettore di fantascienza per le masse, la cosiddetta “pulp science”: queste letture hanno influenzato il tuo modo di scrivere?

Ero un bambino che leggeva sull’autobus che lo portava a scuola, e dava la precedenza a titoli “urgenti”, libri che parlavano di problemi seri. Mi piacevano quelli, e la fantascienza è sempre stata orientata in tal senso. William Gibson è stata una grande presenza, per me; mi piaceva Marion Zimmer Bradley… Credo di aver sempre voluto preservare quel senso di slancio. Anche Eschilo è stata una scoperta enorme all’epoca, aveva una spinta narrativa eccezionale e parlava di massimi sistemi, si chiedeva “come fa tutto questo a essere possibile?”. Era un modo di porsi l’interrogativo sul senso stesso della vita, e lo adoravo. Il pulp mi ha insegnato soprattutto a essere sfrontato nei confronti delle questioni che segnano il nostro tempo, a essere idealistico, ad avere un buon ritmo narrativo. E a scrivere cose che un ragazzino su uno scuolabus vorrebbe leggere.

Abbiamo la stessa età, per cui vale la pena chiederti: cosa pensi di questa generazione? Quando fai dire a Martin che l’umanità sta “lentamente, rovinosamente […] cagando nell’acqua in cui fa il bagno” sei forse tu a parlare?

Credo che l’ambientalismo sia un tema importante, e la mia idea è che stiamo distruggendo il nostro pianeta. Martin però è uno squilibrato, e ovviamente le sue idee non sono le mie, né vi fa riferimento nel modo in cui ne parlerei io. Credo che lui esprima una disperazione che io non provo. Sono anzi convinto che la disperazione sia la risposta sbagliata.

Quale sarebbe una risposta più adeguata, secondo te?

Organizzare la resistenza, con buoni romanzi e la lotta per la giustizia [ride]. Se dovessi dire un nome da seguire come esempio, farei quello dell’ambientalista Bill McKibben: il suo saggio The End of Nature è magistrale ed è una persona che si spende molto per la causa. La verità è che non sono bravo con la politica, mi risulta difficile parlarne in senso “professionale” perché non riesco a essere prescrittivo; penso che dovremmo essere impegnati politicamente, ma non sto cercando di orientare nessuno in quel senso. Credo nell’attivismo nelle comunità, ad esempio, ma questi sono discorsi che rimangono al di fuori del mio romanzo: non sono abbastanza allenato per parlare di politica, diciamo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Per altri contenuti iscriviti alla newsletter di Forbes.it CLICCANDO QUI .

Forbes.it è anche su WhatsApp: puoi iscriverti al canale CLICCANDO QUI .