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E se i politici che denunciano il “Deep State” guardassero troppa televisione?

Rocco Casalino parla all’orecchio di Luigi Di Maio.

Come non bastassero gli affettuosi apprezzamenti rivolti da Rocco Casalino ai funzionari del ministero dell’Economia – colpevoli, secondo il portavoce del presidente del Consiglio, di aver imbucato tra le pieghe del bilancio pubblico 10 miliardi di euro destinati al reddito di cittadinanza – a rincarare la dose sono arrivate le dichiarazioni di Luigi Di Maio, che nel weekend ha denunciato i presunti attacchi del “lato oscuro dello Stato” al Movimento 5 Stelle.

Queste esternazioni necessiterebbero di una maggiore prudenza, perché rischiano di ritorcersi su chi se le lascia scappare. I più maliziosi potrebbe insinuare che additando un nemico subdolo e poderoso si vogliano ridimensionare le aspettative per i prossimi provvedimenti dell’esecutivo: nell’eventualità di un fallimento, preordinandosi un alibi; nell’eventualità di un successo, inflazionando il merito di un risultato conquistato in condizioni tanto sfavorevoli. Si rischia anche di ammettere implicitamente di non essere in grado di navigare i conti dello Stato senza la guida dei deprecati tecnici, abdicando alla responsabilità di reperire le risorse necessarie a finanziare le iniziative.

Tra i numerosi spauracchi – l’Europa, i mercati, le lobby, i poteri forti… – a cui ciclicamente si imputano sabotaggi e resistenze, il cosiddetto Deep State è quello più sfuggente e, dunque, più funzionale alla narrazione di un cambiamento irresistibile ma, proprio per questo, più strenuamente ostacolato.

Una scena di “Scandal”.

Questa specie di “Stato nello Stato”, antagonista misterioso di Di Maio, sembra preso di peso da Scandal, la serie tv creata da Shonda Rhimes e giunta all’epilogo nello scorso aprile, dopo sette rocambolesche stagioni, in cui lo studio ovale è occupato da un presidente troppo impegnato dal triangolo con la First lady e la direttrice della comunicazione per accorgersi che gli Stati Uniti sono governati de facto da una struttura segreta di spionaggio e difesa, sottratta al controllo della Casa Bianca e pronta a truccare elezioni, inscenare attacchi terroristici, togliere di mezzo capi di Stato stranieri e persino uccidere il figlio del presidente stesso, in nome del bene superiore della Repubblica.

Queste cose fortunatamente succedono solo in tv. Il che non significa che le strutture ministeriali non si possano caratterizzare per incentivi e dinamiche e ritualità che talora entrano in conflitto con gli scopi immediati del governo del momento: sulla tendenza delle burocrazie all’autoconservazione hanno scritto pagine illuminanti autori come Ludwig von Mises, Vincent Ostrom e William Niskanen e le implicazioni della tensione tra politica e amministrazione meritano una discussione ragionata, immune da strumentalizzazioni folkloristiche (agli “Stati profondi” in questo senso è dedicato l’ultimo numero della rivista Limes).

Ma se il ministro Di Maio volesse una sintesi più fruibile, potremmo consigliare un’altra serie tv: Yes, Minister, gloriosa sit-com britannica degli anni ’80 che dettaglia l’ascesa di un politico di secondo piano al rango di ministro e di primo ministro, grazie all’oculata (e interessata) tutela di Sir Humphrey Appleby, il civil servant che con eloquenza ipnotica finge di assecondarlo per poi annacquarne ogni slancio. “Se le persone giuste non hanno il potere, ce l’avranno le persone sbagliate! Politici, consiglieri, elettori!”, spiega Sir Humphrey, sicché tocca alla burocrazia il compito di gestire “una macchina governativa civilizzata e aristocratica, temperata da sporadiche elezioni”. Un assetto forse criticabile negli eccessi, ma volto a evitare che ogni avvicendamento elettorale si trasformi in una rivoluzione. Con buona pace del M5S, la democrazia è fatta anche di contrappesi: e si può ben capire quanto in questo momento l’Italia abbia bisogno di un Sir Humphrey.

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