Il partito dei tassatori di internet ha un nuovo e autorevole iscritto: Paul Romer. Dalle colonne del New York Times, il premio Nobel per l’economia del 2018 ha lanciato la proposta di sottoporre a prelievo le inserzioni pubblicitarie mirate che costituiscono la principale fonte di guadagno di aziende come Facebook e Google. Si tratterebbe di una misura ingegnosa, ma non priva di controindicazioni.
Che sia opportuno serrare la stretta del fisco sulle imprese del digitale è opinione ormai largamente condivisa nel dibattito internazionale: proposte in tal senso sono da tempo all’esame delle istituzioni europee e appaiono già in corso d’attuazione in alcuni stati membri, Italia compresa. Tuttavia, l’economista americano postula un diverso obiettivo: non quello di proteggere il gettito delle amministrazioni tributarie dalle sfide dell’economia globale e immateriale, bensì quello persino più ambizioso di tutelare l’integrità del discorso pubblico.
Secondo Romer, le piattaforme dominanti sono diventate un ricettacolo di disinformazione e incitamento all’odio, tanto da minacciare “le norme e i valori condivisi da cui la democrazia dipende”, beni comuni che lo stato è tenuto a difendere. In altre parole, la sua proposta si prefigge di perseguire uno scopo essenzialmente politico attraverso il ricorso a strumenti economici – un approccio di per sé problematico.
Ciò non esclude, naturalmente, che l’imposta ipotizzata sia destinata ad avere anche immediate ricadute economiche. Tassare la pubblicità mirata dovrebbe indurre le piattaforme ad abbandonare il proprio attuale modello industriale, incentrato sulla monetizzazione dei dati degli utenti e sulla prodigalità degli inserzionisti, e a privilegiare un modello più “salutare e tradizionale”, sorretto dagli abbonamenti.
Più che porsi nel solco delle proposte fiscali in discussione in Europa, dunque, l’idea di Romer si configurerebbe come un’alternativa agli interventi regolamentari recentemente invocati persino dall’amministratore delegato di Facebook, Mark Zuckerberg, e alla politicizzazione dell’antitrust immaginata da alcuni membri democratici del Congresso, come la candidata alle primarie presidenziali Elizabeth Warren, che ha raccomandato la frammentazione delle imprese tecnologiche.
Con queste misure, la proposta di Romer condivide il disagio per un non meglio precisato strapotere delle piattaforme digitali e una più generale ostilità per le grandi imprese. A questo proposito, Romer suggerisce che l’imposta sulla pubblicità mirata abbia aliquota progressiva, non solo per avere un maggior effetto deterrente, ma anche per scoraggiare le acquisizioni con cui sovente i principali attori del mercato tentano di cementare la propria posizione.
Sotto il primo profilo, è agevole notare che la progressività favorirebbe nel breve termine le imprese minori, ma ne disincentiverebbe la crescita, mentre rischierebbe, per altro verso, di sollecitare riorganizzazioni opportunistiche da parte dei gruppi maggiori; quanto al secondo aspetto, appare improbabile che la progressività possa incidere significativamente sulle strategie d’investimento di aziende come Facebook e Google, che sarebbero in ogni caso sottoposte all’aliquota più alta.
Ma il principale problema della proposta di Romer attiene al suo presupposto fondamentale: che la pubblicità mirata sia un male in sé e vada trattata come un’esternalità da compensare. Contrariamente alla narrazione dominante, la maggior efficienza della pubblicità mirata rispetto alla pubblicità tradizionale non avvantaggia unicamente le aziende che la vendono e quelle che l’acquistano, ma anche gli utenti che ne sono destinatari, che oltre a poter usufruire di servizi senza dover sostenere alcun esborso monetario, ricevono informazioni più rilevanti di quelle veicolate da inserzioni indiscriminate: una nuova libreria in città invece di un lassativo, l’ultima collezione di uno stilista amato invece di un apparecchio acustico.
Meraviglia che un accademico tanto attento ai temi della crescita economica e dell’innovazione tessa gli elogi dell’impresa “come una volta” – in cui il successo consisterebbe nella “fornitura di un servizio che vale più di quanto costa” – per opporre un rifiuto apodittico a una così rilevante innovazione dei modelli industriali, in grado di minimizzare e quasi eliminare la distanza da domanda e offerta. E ciò non solo perché sarebbe difficile sostenere che i servizi digitali valgano meno del loro costo monetario, se questo è nullo; ma anche perché non si capisce come l’internet che Romer immagina (social network su abbonamento? motori di ricerca su abbonamento?) possa rappresentare un beneficio per le centinaia di milioni di utenti che entusiasticamente utilizzano servizi gratuiti sostenuti dalla pubblicità.
Altro è affermare che le inserzioni mirate possano comportare effetti collaterali per le nostre democrazie: è una discussione rilevantissima, ma che richiede uno più corposo approfondimento per identificare soluzioni anch’esse mirate e non rischiare, sull’onda della – vera o presunta – emergenza, di adottare misure frettolose, i cui costi supererebbero di gran lunga i benefici.
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