In H-Farm, alle porte di Treviso, si fa impresa, formazione, si incuba&accelera nell’ottica digitale e sotto un unico tetto. Avverti una vitalità contagiosa quando varchi la soglia della fattoria (Farm) del sapere (H sta per human/umano) che Riccardo Donadon ha lanciato quindici anni fa portandola a 640 dipendenti e 60 milioni di fatturato per 1/3 derivati dall’attività di formazione – dalla materna all’università -, per 1/3 dall’attività di consulenza ad aziende per implementarne i processi digitali, l’altro 1/3 è frutto di operazioni come incubatore e acceleratore di startup.
Passato (remoto) in Verde Sport del Gruppo Benetton, forgiatore del primo centro commerciale virtuale, quindi della società E-TREE e dal 2015 a capo di H-Farm, Riccardo Donadon è il quinto protagonista del ciclo di interviste dedicate al al D.C. (Dopo Coronavirus) visto dai grandi dell’imprenditoria italiana.
Il 40% delle imprese venete ha alzato la saracinesca grazie ai codici Ateco, deroghe e silenzi-assensi della prefettura. Appartenete a questo fortunato 40%?
Sì. Abbiamo quasi sempre tenuto aperto. E’ durata poco la fase di completo isolamento. Il filone scuola non ha mai mollato, anzi i nostri insegnanti sono quasi sempre venuti in sede per organizzare le lezioni a distanza. Lo stesso è valso per gli altri due settori di H Farm.
Partiamo dalla consulenza digitale. Si apre una fase d’oro per voi. Corretto?
Per un’azienda come la nostra, la pandemia offre ulteriori opportunità perché finalmente tutti hanno compreso la necessità del digitale. Ma allo stesso tempo ci sono settori che stanno soffrendo molto, penso alla moda: saltano le collezioni quindi le aziende tagliano i budget. In compenso arrivano richieste da nuovi clienti.
I problemi più comuni che vi chiedono di risolvere?
Riguardano il retail. E’ forte l’esigenza di accelerare l’e-commerce, la digitalizzazione della distribuzione, il B2B delle merci.
“Nulla sarà uguale a prima” è l’adagio di queste settimane. Ne è convinto?
Gira parecchio questa frase, ma non mi convince fino in fondo. La tecnologia ha conquistato la visibilità e riconoscibilità che gli spettava. In tema di digitale l’Italia era il fanalino di coda ma per effetto del Covid si è risvegliata. Finito tutto ci sarà più smart working, s’è capito che funziona molto bene ed evita la frenesia di tanti trasferimenti. Sono state sdoganate le tele-conferenze, mi vien da dire fin troppo: ora c’è un’ubriacatura di Zoom, Skype e simili. Però allo stesso tempo le persone vogliono stare assieme, avvertono che spesso la compresenza le rende più produttive. Ci sono dinamiche di dialogo che non possono essere archiviate.
In H Farm la scuola è intesa anche come impresa. Proprio per questo siete a una distanza siderale rispetto alla scuola “analogica” italiana, priva di una regia centrale, di metodi e strategie anti-Covid. Ci si salva laddove vi sono docenti o dirigenti illuminati.
Siamo entrati nel mondo della scuola con il chiaro obiettivo di offrire tecnologia, strumenti e contenuti capaci di preparare lo studente al presente. Abbiamo pensato a un format internazionale perché offre una flessibilità non garantita dal sistema nazionale. Detto questo. Da settimane non solo operiamo regolarmente con la didattica a distanza, ora una classe pilota delle Superiori riceverà il visore di realtà virtuale Oculus Quest così da seguire lezioni aumentate.
Un esempio?
Il docente spiega il sistema solare e lo studente lo vive con un’esperienza immersiva. Dal prossimo settembre, quando inaugureremo il nuovo campus, estenderemo questi strumenti ad altre classi consentendo a chi ha problemi di frequenza di seguire le lezioni comunque e al meglio. Abbiamo testato questo metodo facendo formazione a 20mila persone in un progetto Enel.
Dall’azienda alla scuola dunque: questo il futuro. O almeno, un futuro.
Per noi è presente e anche passato nel senso che la forza di H Farm riposa proprio in questa osmosi tra scuola e azienda. La scuola deve smettere di vivere separata dalla realtà.
Cosa prova quando vede che 2 studenti su 10, ma in alcune aree italiane 4 su 10, non fanno didattica a distanza?
E’ desolante sapere che più di un milione di ragazzi è escluso dall’istruzione. Se il problema si ripropone rischiamo di compromettere il futuro di una generazione. Il problema va affrontato. Vero, sono necessari strumenti: ma oggi costano poco. Bisognerà presto risolvere la questione della connettività.
È stato rievocato lo spirito della ricostruzione del secondo Dopoguerra. Trova che vi siano analogie?
In quella fase c’era una coesione che ora manca, e manca a prescindere dal covid. Intendo coesione verso un obiettivo comune da raggiungere attraverso una strategia condivisa. Continuo a non vedere reazioni coerenti rispetto all’impatto, anzitutto economico, che ci sarà.
Il Veneto però sta reagendo molto bene…
Luca (Zaia) è bravo. Siamo fortunati. Sa gestire le situazioni emergenziali anche rispettando gli equilibri istituzionali. Riesce a far fare quello che si deve fare pur in assenza di direttive. Direi che non è banale.
La pandemia ha portato alla ribalta una pletora di commissioni, le cosiddette task force. Tanti saggi, ma le migliori soluzioni stanno venendo dal basso.
Io stesso nel 2012 venni coinvolto in una commissione per dare un contributo in materia digitale. Me ne andai presto. Avvertivo una distanza abissale fra l’istituzione e il Paese vero. In quell’anno c’erano imprenditori che si suicidavano perché non riuscivano a far fronte alla crisi e lì si discettava su cavilli. Ricordo una legge su start up, io suggerivo di estenderla a tutte le piccole e medie e imprese, auspicavo flessibilità. Niente. Non si comprendeva la sofferenza del tessuto imprenditoriale.
Chiedo anche a lei di aggiungere un “se” al banale slogan “Andrà tutto bene”.
Andrà tutto bene se saremo realmente in grado di fare tesoro della nostra impreparazione a gestire gli strumenti che l’innovazione ci sta mettendo disposizione. Andrà tutto bene se sfrutteremo questa situazione per recuperare il ritardo accumulato nella modernizzazione digitale dei nostri modelli sociali.
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